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Sventurato Il Paese Che Ha Bisogno Di Madri

Sventurato il paese che ha bisogno di madri

Claudia Mazzilli motiva la sua scelta di non maternità decostruendo lo stereotipo della maternità patriarcale, offrendoci così una preziosa occasione per esplorare i valori del materno nelle società matriarcali antiche e in quelle tuttora esistenti e marginalizzate oppure oppresse, come marginalizzate e sminuite sono state le studiose che hanno fatto luce su questi modelli di società, che tanto hanno da insegnare all’Occidente maschilista.

Festa della mamma: gli auguri che le lunàdigas non ricevono. Non volere figli, essere senza figli: già nella struttura grammaticale questi enunciati sono costruiti in senso negativo, esclusivo o privativo.

Una voragine, il non avere figli; un abisso; il buco nero nel cui alveo senza fondo la società ci costringe a guardare. Laggiù ci sarebbe il vuoto di senso delle vite delle donne senza figli.

Ma, se proprio bisogna ragionare per negazioni, a cosa abbiamo detto NO scegliendo di non avere figli?

Io personalmente so di aver detto NO alla maternità della società patriarcale, non alla maternità in senso assoluto. Ho detto NO a un modo di intendere il ruolo materno come destino totalizzante e nobilitante della femmina mammifera.

Ho detto NO all’agiografia standardizzata che mi avrebbe trasformata in una santa per il semplice fatto di aver generato dei figli, di averli accuditi e cresciuti nonostante tutto il resto: che fossi o non fossi una buona moglie/compagna, una brava lavoratrice, un’amica affidabile, una brava figlia…, che avessi o no un marito/compagno solidale e responsabile, un lavoro, una casa…: generando figli la natura mi avrebbe comunque erogato la patente di donna che ha adempiuto al suo dovere primario. Tutti gli altri miei errori, vizi, colpe, limiti, sarebbero stati difettucci contingenti e non sostanziali, che avrebbero trovato indulgenza, riscatto, redenzione, soluzione nell’essere madre.

A questa facile santificazione, o almeno normalizzazione, ho detto NO: perché, non mi stancherò mai di ripeterlo, essere madre non è come essere padre, e il peso che grava sulle madri è più di un dovere. È un martirio, in un mondo in cui gli stereotipi di genere sono duri a morire e, rispetto ai decenni passati, assistiamo addirittura a un’inversione di rotta e a un regresso, per via dei sedicenti movimenti Pro-Life (sarò banale, ma per me la tutela della vita è un’altra cosa: non è la claustrofobia del modello unico di famiglia, non è nemmeno l’abolizione dell’aborto, ma è inclusione in ogni forma: accettazione di modi di vivere diversi dal mio, accoglienza dei migranti, tutela dell’ambiente…).

Non c’è niente di naturale e di fatalmente biologico nel ruolo di madri che ci è stato assegnato. C’è solo una devianza storicamente determinabile e determinata, avvenuta quando le nostre società sono diventate società di dominio, a discapito dei valori di cura, dono, mutualità (4000-3000 a.C.). Il patriarcato che ha sostituito il matriarcato: una parola contestatissima su cui va fatta chiarezza.

Le società matriarcali non sono il rovescio speculare delle società patriarcali, perché non sono società gerarchiche ma società egualitarie di genere, fondate sui valori di pace e di consenso: un malinteso che parte da Jacob Bachofen (Das Mutterrecht, prima edizione, Stuttgart, 1861) e che ancora oggi ostacola la ricerca sulle società matriarcali. La cultura dominante patriarcale, infatti, ha cercato in lungo e in largo nel pianeta tracce di società basate sul “dominio delle madri”, senza trovarle. Non potevano trovarle, perché nelle società matriarcali non esiste il dominio. Ed essere madri nei matriarcati non è un obbligo sociale, per quanto possa sembrare un paradosso etimologico: i valori del materno appartengono a entrambi i generi, maschi e femmine, che cooperano in modo solidale.

La conclusione auto-compiaciuta degli studiosi maschi è stata questa: le società matriarcali non sono mai esistite e il dominio maschile è universale, naturale, inconfutabile. Ma “la parola greca “arché” non significa solo “dominio”, ma anche “inizio”, il significato più antico della parola. I due concetti sono distinti e non possono essere confusi. Anche in italiano sono chiaramente diversi: non tradurreste mai “archetipo” con “tipo-dominatore” e non capireste cosa significa “archeologia” se fosse tradotto come “studio del dominio”. […] Basato sul più antico significato di “arché”, matriarcato vuol dire “all’inizio le madri”, alludendo con ciò sia al dato biologico che le donne generano l’inizio della vita tramite il parto, sia al dato culturale che l’inizio della civiltà è stata creata da loro” (H. Goettner-Abendroth, p. 8).

Sul versante opposto, gli Studi Matriarcali (studi per definizione interdisciplinari, che abbracciano gli Studi Culturali, l’archeologia, lo studio comparato del mito, l’antropologia, le scienze sociali, la biologia, gli studi paleolinguistici, la storia delle religioni…) hanno ormai da tempo dimostrato che la storia della civiltà umana è molto più antica dei cinque o seimila anni di cultura patriarcale. Le civiltà matriarcali, d’altronde, hanno lasciato tracce in tutti i continenti nella storia delle culture marginali, culture che non possono essere studiate con approcci basati su giudizi di valore eurocentrici e arrogantemente coloniali.

A conferma di tutto ciò vi sono le biografie di studiose che, collocandosi fuori del tradizionale paradigma di dominio (rifiutandosi, cioè, di studiare i rapporti fra i generi nelle società matriarcali secondo modelli patriarcali!), hanno avuto carriere tormentate o hanno abbandonato la ricerca accademica ufficiale per fare ricerca indipendente.

Marija Gimbutas (Vilnius 1921 – Los Angeles 1994), attraverso un approccio interdisciplinare da lei denominato archeomitologia, con la classificazione e interpretazione di oltre duemila manufatti ha contribuito a dimostrare che la venerazione della Grande Dea durò all’incirca 40.000 anni, in società pacifiche estese in tutta l’Europa Antica e successivamente indoeuropeizzate e patriarcalizzate, cioè distrutte dall’esterno, con le invasioni di uomini a cavallo, portatori della cultura della guerra, provenienti dalle steppe russe. Le statuette della Dea creano ponti con il Medio Oriente e con le culture degli altri continenti: tracce di un altro mondo possibile, di un altro equilibrio fra i generi. Ne sono un esempio, per non andare lontano, le statuette sarde, da quelle con le volumetrie più rotonde e abbondanti fino a quelle più astratte a placca traforata. Io ne sono rimasta incantata quando ho potuto ammirarle al Museo Archeologico di Cagliari: i seni appena stilizzati in figurine ieratiche sembrano esaltare più i valori della maternità sociale che quelli della maternità biologica (donna e dea nutrice, più che fattrice), come ha fatto notare l’archeologo Giovanni Lilliu nei suoi numerosi studi.

Ovunque siano state ritrovate queste statuette (insisto: non semplice madre fattrice, volenterosa e sottomessa, ma creatrice cosmica, che presiede ai cicli di nascita, morte e rinascita), il linguaggio della Grande Dea mostra geroglifici simili a triangoli pubici (V,M, X), sembianze ornitomorfiche e ofidiche, zig-zag che simboleggiano il corso serpentino dell’acqua o del liquido amniotico, cerchi o spirali o meandri a ricordare i ritmi periodici della natura: questo linguaggio ci parla di un mondo in cui la specie umana partecipava ai processi della natura e il vivente era percepito nella donna come nella pietra, in un serpente, o in un uccello acquatico che collega cielo, acqua e terra, senza separazione tra questi tre regni, come avverrà invece nelle mitologie posteriori o nell’epistemologia delle scienze attuali, che fanno fatica a far dialogare i saperi e solo da poco provano a liberarsi di una parcellizzazione estrema e di corto respiro (M. Gimbutas, p. XXIII).

La Grande Dea è molto di più delle greche Atena, Era, Artemide, Ecate, delle romane Giunone, Minerva o Diana, molto di più di Afrodite o Venere, molto di più delle baltiche Laima e Ragana o della russa Baba Yaga. Non si limita a elargire fecondità e fertilità o, al contrario, morte. “Queste datrici-di-vita e reggitrici-di-morte sono “regine” o “signore” e nelle intime convinzioni delle persone tali rimasero molto a lungo, nonostante che ufficialmente fossero state detronizzate, militarizzate e ibridate con le spose e mogli celesti indoeuropee”. (M. Gimbutas, p. XIX)

L’approccio di Marija Gimbutas, d’altronde, è libero da stereotipi per le specificità della sua cultura d’origine, essendo nata a Vilnius, in Lituania, in un contesto familiare fervido: i genitori, medici, furono impegnati nella difesa dei miti e delle tradizioni lituane oppresse dalla cultura dominante degli zar russi. La cultura lituana, inoltre, esprime una visione olistica della natura. In Lituania il cristianesimo (e il suo retaggio patriarcale) fu introdotto ufficialmente nel 1387 e penetra effettivamente non prima del Cinquecento, lasciando sussistere nel folklore e nella mitologia elementi pre-indoeuropei (M. Gimbutas, p. XVIII). Nel 1939 la Lituania subì l’invasione tedesca e poi quella sovietica; presto iniziarono le deportazioni di massa in Siberia: spariscono venticinque membri della famiglia di Marija, che si unisce alla resistenza e alla lotta politica e nel ’45 è costretta a fuggire in Austria, per poi rifugiarsi negli Usa nel 1949, dove continua le sue ricerche, non senza ostacoli (cfr. E. Isgrò in Enciclopedia delle donne).

Per demolire gli studi di Marija Gimbutas, infatti, è stata purtroppo costruita da Colin Renfrew (Archeologia e linguaggio, Laterza 1989, trad. it.; titolo originale: Archaeology and Language, Jonathan Cape 1987) una contro-teoria che sposta indietro di migliaia di anni l’indoeuropeizzazione dell’Europa, fatta risalire ai primi agricoltori anatolici migrati nell’Europa sudoccidentale, al solo scopo di rafforzare il patriarcato come modello antico, universale, eterno. Addirittura le statuette della Grande Dea sono state interpretate come giocattoli per bambini o figurine stimolanti per l’autoerotismo maschile. Tuttora i libri di storia in uso nelle scuole non menzionano questa illustre studiosa. Un più accurato (e onesto) studio della preistoria è necessario per estirpare le storture del pensiero maschilista ancora dominante, contribuendo a relativizzarlo, storicizzarlo, decostruirlo, invece di farne un paradigma assoluto, spesso inconscio, interiorizzato da bambine e bambini, facendo delle donne delle prede come gli schiavi e i prigionieri nelle guerre di conquista.

È dunque giunto il momento di far conoscere queste scoperte, acquisite ormai da molti decenni, e non raccontare nelle scuole e al grande pubblico solo il ratto di Proserpina e gli inseguimenti seriali delle ninfe da parte di Zeus (o la donna che spazza e spolvera la grotta mentre l’uomo va a caccia). Il femminile come soggetto, non come oggetto; la responsabilità multi-specie in contrasto all’uomo predatore della natura; la libertà delle scelte di vita: nella preistoria si nasconde un tesoro che ha in sé le potenzialità di una rivoluzione della coscienza collettiva, che possa riconnettere il pre-patriarcato e il post-patriarcato, dopo millenni di oblio e di assolutizzazione di un unico modello.

Una caratteristica della filosofia della scienza tradizionale (cioè patriarcale) è quella di operare per astrazioni e sistemi chiusi, ragionando spesso in funzione normativa. Nell’approccio alle culture antiche o a quelle indigene contemporanee, impera il pregiudizio che esse non abbiano mai creato culture “alte” (dove per “cultura alta” si intende lo Stato o l’impero patriarcale con le sue strutture gerarchiche di dominio, senza rendersi conto che sono esistiti e possono esistere sistemi politici altrettanto complessi pur non essendo Stato nell’accezione classica del termine). Inoltre sono applicate teorie evoluzionistiche unilineari (da Henry Lewis Morgan a Claude Lévi-Strauss agli studiosi successivi). Ad esempio, prevale il dogma che la civiltà nasca con il possesso della proprietà privata e con la monogamia: una proiezione, a ritroso nel tempo, della famiglia mono-nucleare tardo-borghese di religione cristiana, nata molto più tardi.

Lo denuncia esplicitamente Heide Goettner-Abendroth (Langewiesen, 1941), che ha lasciato la carriera universitaria per fondare l’“Accademia Internazionale HAGIA per gli Studi Matriarcali Moderni” al fine di studiare le società matriarcali nelle società indigene ancora esistenti in tutto il mondo. Il suo metodo di studio è esattamente l’inverso di quello patriarcale, che Heide Goettner-Abendroth mette sotto accusa: la studiosa non parte da un paradigma predefinito, ma prima osserva ed esplora i modelli organizzativi delle comunità e poi, solo dopo la ricerca, ne definisce la struttura formulando tutte le interrelazioni tra i livelli economico, sociale, culturale, politico, restituendo così un insieme coerente. Tutti i capitoli della sua opera immane (Le società matriarcali. Studi sulle culture indigene del mondo, Venexia 2013, trad. it.), rigorosi eppure fruibili anche da chi non sia espertə del settore, si concludono infatti con un paragrafo “aperto”, un’ipotesi di lavoro più che una conclusione rigida, dal titolo Per comprendere la struttura delle società matriarcali (continua), in cui sinteticamente si individuano dei tratti che consentano un confronto agile tra costanti di società anche molto lontane tra loro perché situate in continenti diversi.

Così, ad esempio, si impara che una società per essere matriarcale non deve essere solo matrilineare e matrilocale. Dai Khasi dell’India nordorientale ai Newar (Nepal) agli antichi regni di regine nel Tibet, ai Moso della Cina sudoccidentale agli Ainu e alle culture matriarcali delle isole Ryukyu (Giappone) ai Minangkabau dell’Indonesia e alle società delle isole Trobriand e dell’Oceano Pacifico agli Hopi del Nord America ai Cuna e agli Aruachi dell’America centromeridionale, fino ai Bantu, agli Akan e i Tuareg del continente africano, sono società matriarcali quelle in cui:

– sul diritto della proprietà privata prevalgono i diritti di usufrutto, perché nell’“economia del dono” i beni sono a vantaggio di tutti e il mercato ha una funzione molto diversa da quella dei mercati capitalistici tesi alla massimizzazione dei profitti;

– edifici, santuari, culti e sistemi simbolici educano all’armonica convivenza con la natura;

– è fondamentale il culto delle antenate e degli antenati, attraverso lo sciamanesimo femminile, che è sopravvissuto anche nelle società patriarcali come eredità di epoche più antiche (si pensi alle cerchie iniziatiche femminili della Grecia); esso non va ridotto a pratica primitiva, ma va inteso come una forma di sapere altro, non riducibile alla sola ratio e al solo logos che, nelle loro esasperazioni tecnocratiche, hanno contribuito alla rapina coloniale e all’attuale crisi ecologica (cfr. A. Tonelli, pp. 12-13 e nota 3 e G. Galzio, pp. 31-55);

– essenziale è il ruolo del fratello della donna, la figura maschile più importante nell’accudimento e nell’educazione della prole. Lo zio svolge il ruolo di padre sociale e in tal modo alla donna è garantita una maggiore libertà sessuale e una vita affettiva non condizionata dalla gestione familiare (le storie d’amore sono libere e socialmente irrilevanti perché non intaccano il rapporto fratello-sorella, architrave della cura della prole) ma, anche lì dove la paternità biologica corrisponde all’effettiva paternità sociale, il padre matriarcale collabora con la madre e non esercita il dominio maschile sulla famiglia e i figli;

–  in molti casi la poliandria (una donna con più mariti) consente di generare meno bambini e risponde a principi ecologici, a differenza della poliginia delle culture patriarcali (molte mogli per un solo uomo);

– per lo più è la donna a corteggiare l’uomo; la donna è libera di decidere se gli incontri sfoceranno o no nel matrimonio (un istituto peraltro assente in alcune società matriarcali o diverso da come lo intendiamo noi);

manca la venerazione cultuale della maternità in senso meramente riproduttivo, uno stereotipo patriarcale in cui la donna è ridotta alla funzione generativa, a discapito delle sue aspirazioni e potenzialità; nei matriarcati la maternità non è solo un atto biologico ma anche un atto che crea cultura;

la sessualità è un valore positivo, perché è considerata fonte di salute, pace e cultura;

– le cape del clan hanno un potere non autoritario: non comandano con la forza, non hanno guerrieri e capi di polizia a proteggerle; il loro ruolo è dare consigli e svolgere un ruolo di mediazione che assicuri la coesione, il benessere e l’armonia della comunità;

le strutture matriarcali sono state quasi sempre modificate dall’esterno per l’aggressività delle società patriarcali (ciò vale anche per le epoche più recenti rispetto a quelle studiate dalla Gimbutas per il Paleolitico, il Neolitico e l’Eneolitico): si pensi all’azione delle grandi religioni monoteiste, all’espansione dell’Islam, al colonialismo, con i genocidi, la predicazione cristiana ecc. (pensare invece che le società matriarcali si siano modificate dall’interno risponde ad una pseudo-teoria evolutiva patriarcale).

Merita di essere citata anche Riane Eisler, studiosa e attivista sociale, nata a Vienna nel 1931, ma presto costretta a rifugiarsi, a causa delle persecuzioni naziste, a Cuba e poi in Usa. Anche Riane Eisler è impegnata nell’indagine del passato alla ricerca di modelli culturali “gilanici”, cioè basati sulla cooperazione tra donna-gyné e uomo-anér (il modello della partnership in opposizione al modello dominatore) volti a scardinare gli integralismi e la barbarie del nostro tempo. Prendo in prestito le sue parole per gli auguri della festa della mamma, che rivolgo con sincerità a tutte, madri e non madri, figli e figlie, padri e non padri:

“I mutamenti dei rapporti tra uomo e donna, dall’attuale alto grado di sospetto e recriminazione a una maggiore apertura e fiducia, si rifletteranno sulle nostre famiglie e sulle nostre comunità. Ci saranno ripercussioni positive anche sulla politica nazionale e internazionale. Gradualmente assisteremo a una diminuzione della serie apparentemente infinita di problemi quotidiani che ci affliggono, come infermità mentale, suicidio, divorzio, violenza a moglie e figli, vandalismo, omicidio e terrorismo internazionale. […] problemi di questo tipo derivano in gran parte dall’alto livello di tensione interpersonale insito in un’organizzazione sociale a dominio maschile, e da metodi di educazione dei bambini pesantemente basati sulla forza. […] Quando raggiungeremo la consapevolezza del legame che intercorre tra gli uomini, e tra gli uomini e l’ambiente […] non ci sarà maggiore uniformità e conformismo, proiezione logica dal punto di vista di un sistema dominatore, bensì più individualità e diversità.” (R. Eisler, pp. 357-358)

Ecco dunque a cosa ho detto NO negandomi i figli: ho detto NO a un’idea di famiglia bigotta e costrittiva (ogni riferimento al disegno di legge Pillon non è casuale).

Ho detto NO all’utilitarismo individualista dell’uomo occidentale, all’eccezionalismo competitivo dell’anthropos visto come culmine della creazione a immagine e somiglianza del dio dei cieli, o inteso come gradino più alto dell’evoluzione a discapito delle altre specie (sia in senso religioso sia in senso laico, quindi).

Ho scelto di avere l’ultima parola sul fatto che una nuova vita debba nascere o meno e, poiché l’accesso all’aborto vacilla in molte parti del mondo ed è applicato in modo disomogeneo persino sul territorio nazionale, poiché assisto al continuo consumarsi di violenze sulle donne vicine e lontane, poiché ho constatato una scarsa emancipazione maschile su questi temi e, spessissimo, un’ancora più scarsa sensibilità nelle figure istituzionali preposte a promuovere azioni emancipanti, io, in modo preventivo, costante, ostinato, ho esercitato questo mio diritto di ultima parola sull’avere figli attraverso una pratica quotidiana di resistenza alla procreazione e di ammutinamento ad oltranza rispetto alla costruzione di una famiglia e ai doveri sbilanciati che ne derivano. Perché la libertà sessuale e riproduttiva è il mezzo più potente di opposizione al patriarcato, e le donne che lo hanno capito sono e saranno sempre di più.

di Claudia Mazzilli

FONTI CITATE

www.antiquariumarborense.it/it/Museo/Documenti/LILLIU-Arte-e-religione-della-Sardegna-prenuragica.pdf

  1. Eisler: R. Eisler, Il calice e la spada. La civiltà della Grande Dea dal Neolitico ad oggi, Forum 2011 (trad. it.) [titolo originale: The Chalice and the Blade. Our History, our Future, HarperCollins 1989]
  2. Galzio: G. Galzio, Ritorno alla Dea, Agorà & CO., 2022
  3. Gimbutas: M. Gimbutas, Il linguaggio della Dea, Venexia 2008 (trad. it.) [titolo originale: The Language of Goddness, HarperCollins 1989]
  4. Goettner-Abendroth: H. Goettner-Abendroth, Le società matriarcali. Studi sulle culture indigene del mondo, Venexia 2013 (trad. it.) [titolo originale: Matriarchal Societies. Studies on Indigenous Cultures across the Globe, Kohlhammer Verlag, 1988-2000]
  5. Isgrò in Enciclopedia delle donne: http://www.enciclopediadelledonne.it/biografie/marija-gimbutas/
  6. Tonelli: A. Tonelli, Negli abissi luminosi. Sciamanesimo, trance ed estasi nella Grecia antica, Feltrinelli 2021

ALTRE LETTURE (VIVAMENTE!) CONSIGLIATE:

  1. Bompiani, L’altra metà di Dio, Feltrinelli 2022
  2. Longoni, Madre natura. La Dea, i conflitti e le epidemie del mondo greco, Enciclopedia delle donne 2021
  3. Renda, Il matriarcato. All’origine le madri? Un viaggio dal paleolitico alle società contemporanee, Asterios 2020

 

 

 

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