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Il Rifiuto Attivo Del Binarismo Di Genere

Il rifiuto attivo del binarismo di genere

Legacy Russel, GLITCH FEMINISM

Una recensione di Claudia Mazzilli

Alzi la mano: chi è impegnatə in un’associazione o in un qualsiasi collettivo senza promuoverne le attività in rete; chi non ha almeno una persona cara con cui mantiene i contatti attraverso i social, o che addirittura ha conosciuto su Internet; chi non abbia mai trovato sul web una proposta di lavoro, un annuncio di affitto, un vendesi, una vacanza, qualche cosa piccola o grande che poi è diventata realtà; chi non ha mai lavorato in smart working; chi non ha mai studiato attraverso la didattica a distanza; chi non ha scritto mai uno sfogo, un rigo di protesta su Facebook; chi non ha mai partecipato a una riunione su Zoom.

Sono solo esempi comuni (e non certo i più radicali) di come la vita online e quella reale si intrecciano in un’unica dimensione ibrida, perché varchiamo quella soglia ogni minuto, come si passa da una stanza all’altra in una medesima casa. Ormai da decenni, e ancor più con la pandemia da Covid, il mondo dei corpi e quello digitale non sono più ambienti separati. E da tempo sappiamo anche che ogni tecnologia riflette la società che l’ha prodotta, che gli algoritmi della rete sono strumenti di controllo e di potere, che riproducono stereotipi e pregiudizi.

Legacy Russel, attivista per i diritti delle persone QTPOCI+ (Queer & Trans, People of Color, Indigenous…), curatrice allo Studio Museum di Harlem, donna Nera e queer, oggi ha trentacinque anni ma ne aveva dodici quando ha creato l’avatar digitale LuvPunk 12:

le facce, le identità e la pelle come la mia e come quella delle comunità miste in cui ero cresciuta stavano scomparendo inesorabili. Stavo diventando una straniera nel mio stesso territorio, la reliquia di un capitolo di New York ormai finito. Le famiglie di colore che come la mia avevano costituito il vivace paesaggio del centro erano ormai escluse dal quartiere. D’improvviso i nostri vicini erano sempre più bianchi, più arrivisti, e sempre più a disagio per la presenza mia e della mia famiglia (p. 17).

Non sono anch’io una donna?, si chiede anche Legacy Russel mentre in Glitch Feminism esplora le arti visuali come mezzo di superamento dei confini (plurimi) del corpo. Con questa domanda rivendica l’apporto della nerità al femminismo e si pone in continuità con la madrina dell’intersezionalità, Kimberlé Crenshaw. Ma soprattutto Legacy Russel esplicita la sua sorellanza con bell hooks e con il suo testo d’esordio (Ain’t I a Woman?: Black Women and Feminism, del 1981), che a sua volta citava la domanda con cui nel 1851, in una chiesa di Akron (Ohio) in cui si svolgeva un convegno sui diritti delle donne, l’abolizionista americana Sojourner Truth, schiava liberata e attivista, rivendicò diritto di parola per sé e visibilità per tutte le donne Nere.

Il glitch recupera e aggiorna dialetticamente il cyborg, concettualizzato da Donna Haraway nel 1991 nell’ambito delle teorie postmoderne sull’interconnessione tra le categorie di genere, identità e differenza. Detto in parole più semplici, per una nativa digitale come Legacy Russel, schiacciata dallo sguardo eteronormativo bianco, il mondo online è stato un luogo accessibile ed economico per stringere legami con chi parlava, in termini di genere e razza, la sua stessa lingua: un luogo aperto alla sovversione del binarismo di genere perpetrato dal tecnopatriarcato capitalista, con sperimentazioni da riportare anche nella vita offline. Qui si può avere una pelle digitale ed essere io molteplici, cercare e costruire mondi migliori, ambienti utopici, un futuro sostenibile, qui si può rifiutare lo sguardo coloniale, come scrive in NOPE (a manifesto) nel 2016 E. Jane, a sua volta sperimentatrice di nuove forme di libertà attraverso l’avatar Mhysa.

Ma Internet è un luogo di approdo dove non si può sperare di essere accolti da quelle stesse forze che omologano e respingono, i cui algoritmi sono creati dai bianchi per i bianchi, riproducendo canoni esclusivi e prevaricatori persino all’interno del cyberfemminismo, in cui, salvo poche eccezioni, sono state le voci e le facce bianche delle donne di classe media quelle più visibili: tuttavia è un luogo dove, dal di dentro, è possibile criptare, fare ghosthing, introdurre errori, hackerare il binarismo di genere, per poi riportare nella vita reale questi remix sovversivi e renderli virali. Legacy Russel dimostra con un esempio sconcertante quanto il corpo possa essere razzializzato, offeso, degradato: nel 2015, l’algoritmo di riconoscimento di immagini di Google confondeva gli utenti Neri con i gorilla. L’intervento immediato dell’azienda per risolvere il problema è stato programmare Google Foto in modo da non etichettare nessuna immagine come gorilla o scimmia, nemmeno quelle che effettivamente raffigurano primati. Nulla più.

E allora cos’è il glitch? “Glitch” è una parola che si è diffusa negli anni Sessanta. Le prime attestazioni del termine, ad indicare errori minimi, nascosti eppure fastidiosi, si trovano nel libro di John Glenn Into Orbit (1962) e nei giornali che parlavano dei programmi spaziali statunitensi, per esempio in un articolo del The Miami News del 1971 (in cui si cita un “glitch” che ha rischiato di compromettere l’allunaggio dell’Apollo 14).

Un glitch è una disobbedienza interna della macchina e produce un fallimento, uno scivolone, come quando un’interferenza sgrana o sfoca una scritta, oppure deforma e risucchia l’immagine sullo schermo rompendo l’illusione della verosimiglianza e rivelandone l’artificialità (evocativa la copertina all’edizione italiana dell’opera, tradotta da Gaia Giaccone per Giulio Perrone Editore; una copertina che è anche una dialettica tra bianchezza e nerità).

Come quando le pagine Internet non rispondono o la rotellina che ci chiede di “attendere, prego” non la smette più di girare e ci fa venir voglia di spegnere il computer e fare altro: così il glitch esce dallo schermo e porta l’errore nello spazio fisico delle nostre vite. Apre un varco.

E allora, ecco qualche esempio di glitch feminism.

L’artista boychild nelle sue performance si esibisce spesso nuda, contaminando reale e digitale (spesso emana dalla bocca una luce fosforescente), evocando le atmosfere della vita notturna queer e degli spettacoli drag queen e muovendosi come un robot ora velocemente ora lentamente (con l’intenzione, esplicitamente dichiarata da boychild, di incarnare un glitch).

Juliana Huxtable, nata intersessuale ma assegnata al genere maschile, cresciuta nel contesto conservatore e bigotto del Texas, si poi è rinominata al femminile e ha acquisito sempre maggiore consapevolezza del proprio essere post-gender man mano che sviluppava la sua arte (scritta e visiva) su piattaforme digitali, al punto che l’artista Frank Benson nel 2015, in occasione della Triennale del New Museum di New York, ne ha realizzato un ritratto: una scultura di plastica intitolata Juliana (quasi una rivisitazione post-Internet della scultura greca Ermafrodito dormiente). La scultura è stata corredata dall’esposizione di stampe e poesie, con messaggi ecologici, antirazzisti e più inclusivi riguardo al genere.

E ancora: l’artista e drag queen Victoria Sin, che lavora a Londra; alla nascita le è stato assegnato il sesso femminile, ma lei si considera non-binary e queer. Nelle performance (su Instagram o dal vivo) il suo corpo scavalca i confini di genere. La sua immagine è quella della “high femme”, colei che esibisce una femminilità esagerata: in parole semplici, i suoi outfit alla Jessica Rabbit, con un trucco esagerato e protesi di seni e glutei di cui non si nascondono i contorni, denunciano l’artificialità del costrutto di genere, in bilico tra glamour, satira, cabaret, burlesque e parodia dei tutorial di trucco di Youtube. Ecco che il genere è qualcosa di posticcio e assemblato: tutte le volte che “ci facciamo belle”, spesso per esserlo allo sguardo altrui (maschio, cis, bianco), siamo le avatar di noi stesse. Il genere è decostruito come gabbia e come truffa.

Nel 2014 Facebook ha attivato ben 58 opzioni per indicare il proprio genere, ma anche questa moltiplicazione di definizioni possibili si muove in una logica binaria. Il glitch feminism, invece, invita a sabotare le spunte di Facebook e di tutte le piattaforme online: maschio/femmina, giovane/anziano…, tutte le opposizioni binarie che servono a incasellarci come utenti di un consumo passivo nella prigione del marketing. Auto-definirci è l’ultimo dei problemi, in questo mondo al collasso. Ma soprattutto: senza etichette diventiamo inutili per il capitale. Respingendo il binarismo, rifiutando di diventare complici del furto dei nostri dati personali interpretati secondo rigidi algoritmi socio-culturali, rifiutiamo questa economia. Mettiamo in atto una resistenza, sfuggiamo alla sorveglianza di massa. Con l’errore portiamo il movimento in uno spazio statico.

È glitch anche American Artist, l’artista che dandosi questo nome apparentemente anonimo ha fatto in modo di comparire attraverso i motori di ricerca accanto a Basquiat, Hopper, Pollock e Warhol, generando un errore sovversivo, facendo incrociare nel web coloro che cercavano American Artist e coloro che cercavano gli artisti americani riconosciuti e blasonati, sovvertendo e aggiornando il canone. In A Refusal (2015-16) American Artist ha oscurato le sue opere sulle piattaforme digitali, costringendo i follower a richiedere incontri individuali con l’artista per accedere a tali contenuti. In tal modo è diventato inutile in termini di economia digitale; eppure il valore delle sue produzioni, più rare e meno fruibili, è cresciuto, attraverso il gesto concreto e simbolico di controllare le proprie opere e vigilare sulla loro circolazione senza gli intermediari digitali.

Il glitch si fa materiale criptato, restituisce la privacy, diventa significato e significante da contrabbando, non tracciato dal potere egemonico. Il glitch è anti-corpo, è corpo arricchito dal digitale, è corpo cosmico, materiale e immateriale.

È glitch persino Lil Miquela, l’avatar-influencer creata dalla Brud (una società di Los Angeles), paladina di cause come Black Lives Matter o i diritti LGBTQ+: “da un lato incarna l’unione perversa tra l’attivismo e il capitalismo consumista neoliberale; dall’altro lato, però, essendo una IA e quindi non avendo un corpo, è un esempio delle potenzialità degli avatar digitali” (p. 95).

Ed è glitch l’impegno dell’artista Kia LaBeija (classe 1990), una donna Nera, filippina, queer, sieropositiva, il cui nome d’arte deriva dalla casa fondata negli anni Settanta dalla drag queen Chrystal LaBeija, una delle houses che hanno offerto ospitalità e mutuo appoggio a chi è di colore, omosessuale o transgender: le performance di Kia Labeija si ispirano proprio alle pratiche artistiche di queste houses, risemantizzando in modo illeggibile e selvaggio i concetti di genere, di corpo e di malattia (ad esempio in Mourning Sickness del 2014 e Eleven del 2015).

È glitch feminism quello di Shawné Michealain Holloway, che ha tratto ispirazione dal mondo delle camgirls: in una serie di selfie del 2015, ha ripreso una fotografia del 1987 dell’artista Carrie Mae Weems, in cui una donna Nera davanti allo specchio fa il verso alla frase della fiaba di Biancaneve: “Specchio specchio delle mie brame, chi è la migliore del reame?”. Holloway ripristina l’originale “più bella del reame” e nella risposta “Biancaneve, stronzetta nera, e non dimenticarlo!!!” fa affiorare la fragilità del corpo Nero rispetto all’ideale della bellezza bianca. Una critica alle gabbie del genere e della razza.

Si tratta, insomma, di icone che insieme a tante altre più e meno famose hanno pian piano rimodellato il nostro immaginario, oggi molto più aperto a concepire corpi non binari, queer, glitch appunto, con un potenziale di cambiamento radicale, anche se ancora compresso. Un immaginario che ha pian piano eroso il fondamentalismo biologico delle categorie (naturalizzate, ma in realtà ‘politiche’) di sesso, genere, femminilità, mascolinità, riuscendo a scardinarle e ri-narrarle dal margine. Viene ancora spontaneo citare bell hooks nell’ultima pagina di Elogio del margine:

Faccio una distinzione precisa tra marginalità imposta da strutture oppressive e marginalità eletta a luogo di resistenza – spazio di radicalità e apertura radicale. Questo luogo di radicalità è permanentemente caratterizzato da quella cultura segregata di opposizione che è la nostra risposta critica al dominio (p. 134 dell’edizione Tamu, con traduzione in italiano e cura di Maria Nadotti).

Remixando, corrompendo e distorcendo il binarismo, Internet può diventare proprio questo luogo di resistenza e radicalità:

una stanza tutta per sé”, scrive Legacy Russel, a patto di non affidarsi alla rete ingenuamente (p. 50). “Ho trovato nuovi percorsi durante il mio concepimento e la mia gestazione online, quei giorni inesperti in cui mi riflettevo come un Orlando digitale, cambiavo forma, viaggiavo nel tempo, mi facevo genderfuck a mio piacimento. Sono diventata il glitch, l’ho incarnato, e così facendo sono diventata me stessa, ho trovato il mio corpo. Ognuno di noi contiene moltitudini, e in quanto femministe glitch non abbiamo uno, ma tanti corpi (p. 146).

Nell’universo che il bio-potere dominante ha tagliato in due tra umano e animale, uomo e donna, vita e morte, colonizzatore e colonizzato, natura e macchina, reale e digitale, il glitch è la cicatrice che si forma sulla ferita di queste dicotomie, ma è una ferita non inerte, che vuole infettare e urticare, che sovverte il vittimismo in attivismo, per fondare nuove comunità nomadi.

Per approfondire, due interviste a Legacy Russel:

https://www.rivistastudio.com/legacy-russell/

https://www.vogue.it/news/article/legacy-russell-femminismo-lgbtq

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