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A partire dalla sua esperienza personale di donna senza figli, Paola Valenzano racconta di come l’arte sia stata fondamentale non solo come medium per elaborare momenti di sofferenza e crescita, ma anche come esplorazione e definizione di sé nel mondo. Oltre a una riflessione sul fare artistico inteso come nutrimento imprescindibile per l’individuo e la società, Paola riflette sul film “Lunàdigas ovvero delle donne senza figli” riportando alcune sue osservazioni sulla maternità e la non-maternità.

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Ecco la trascrizione completa del video:

« Mi chiamo Paola Valenzano, sono un’artista, sono una studiosa, diciamo; una ricercatrice di questioni antropologiche e artistiche.

Non ho figli, sul tema della scelta, insomma, la risposta è complessa, forse non riesco a esaurirla in un sì e in un no, diciamo che non ho mai avuto la fantasia o almeno da bambina e nella mia infanzia – in gran parte della mia crescita – non ho mai avuto questa fantasia di avere figli. Mi sono sempre visualizzata in maniera diversa, no? Una fantasia che poi neanche quella, in qualche modo, si è realizzata: quella di viaggiare, di conoscere culture diverse. L’ho fatto con lo studio ma in realtà io non sono stata una grande viaggiatrice, almeno da una certa età in poi.

Non ho avuto assolutamente nessun tipo di pressione consapevole da parte della famiglia, né giudizi né richieste di nessun tipo. È stato più che altro un vissuto implicito familiare che poi mi ha forse spinta nella direzione di non avere figli; cioè, probabilmente ho vissuto la mia nascita come dannosa e quindi ho conservato dentro di me probabilmente la paura di essere a mia volta dannosa. Cioè ho subito un danno perché ho percepito la mia nascita come un danno per mia madre, come una cosa non desiderata, non voluta e quindi, avendo conservato questa memoria ho pensato anche… ho avuto il timore di riprodurla, di riproporla quindi… non ho avuto quindi delle pressioni dirette, consapevoli; è stato un vissuto, in questo senso, che però per me è abbastanza archiviato perché ci ho fatto anche tanto lavoro, anche attraverso l’arte. Quindi credo oggi di non essere contaminata più di tanto da quella memoria e me ne sono accorta nel momento in cui mi sono domandata e ho sentito anzi l’impulso di dare qualcosa a qualcuno, non necessariamente a un figlio, ma di restituire un po’ quel patrimonio di conoscenze, di saperi, di abilità che ho acquisito in questi anni soprattutto attraverso l’arte, attraverso gli scambi che ho avuto con tante persone – non solo donne chiaramente, ma su certe tematiche soprattutto donne perché c’è un’attitudine ad aprirsi, a condividere molto più intensa e profonda molto spesso. Tutto questo patrimonio, quelle eredità immateriali cui fa anche cenno il film “Lunàdigas”, il documentario… per me è stato un tema un certo punto. Che ci faccio? Non tanto gli oggetti, anche tutti quei libri che ho, che per me sono un patrimonio proprio di ricchezza che mi piacerebbe poter condividere con qualcuno. E quindi da lì probabilmente si è sviluppata questa idea di fare arte partecipativa, di sviluppare più quell’aspetto dell’arte relazionale, di poter poi anche condividere questo patrimonio immateriale però ricchissimo.

Questo quindi sì, senz’alto è un tema che mi caratterizza negli ultimi anni e questo secondo me vuol dire che ho superato quell’immagine di me come una persona che può fare il danno, che può danneggiare, ma ho incluso dentro di me il fatto che potevo invece avere anche qualcosa da offrire, qualcosa di nutriente da offrire. E forse questo termine non è casuale rispetto al tema della maternità.

Quello che mi ha fatto percepire come indesiderata o dannosa è il fatto che io sia capitata nella vita di mia madre in un momento anche complicato della sua vita, insomma, quindi ho sentito in lei proprio la fatica di adattarsi a questa nuova condizione non voluta; una grande fatica, grande grande grande. Io ho sempre avuto il sospetto che lei abbia avuto in realtà una depressione post partum mai superata, mai diagnosticata. Io penso che sia un po’ questo il tema elaborato da lei fino a un certo punto, da me parecchio. Quindi per questo dico, per me questo tema è un po’ archiviato. Mia madre oggi non c’è più e sento la gratitudine per tutti gli sforzi che lei ha fatto in qualche modo per superare questa condizione iniziale, un’enorme gratitudine. Però quello che è stato è stato, con tutte le conseguenze del caso, insomma.

Queste cose non sono state dette più di tanto. Queste cose sono dati che poi sono stati un po’ ricostruiti, un po’ posteriori, in parte attraverso uno scambio diretto durante l’adolescenza, quando ho iniziato a cercare di avere delle risposte però no, non ho affrontato il discorso maniera così diretta.

Ho una sorella, una sorella che ha due figli, un maschio e una femmina – meravigliosi, che adoro – e lei ha fatto, in qualche modo, una scelta diversa, anche se è una madre completamente diversa da come era mia madre. Forse proprio per quello, insomma. Forse ha voluto misurarsi con un modello diverso di maternità, io non lo so.

Poi, ecco, su questo tema della scelta… La scelta: io sono convinta che c’è una parte della nostra volontà implicata nel fatto di avere o non avere figli, poi ci sta tutto un enorme sommerso sia nel fare che nel non fare i figli che ci spinge in questa direzione e poi ci sta anche la vita. Io conosco una quantità di donne che non volevano figli e li hanno avuti per una serie di circostanze e che poi magari hanno anche rivisto la posizione o no – perché non è detto – e ci stanno anche una quantità di donne che hanno voluto avere figli e non ci sono riuscite nonostante una serie infinita di tentativi medici o relazionali o qualunque… quindi il tema della volontà sicuramente è importante ma io sono convinta che poi c’è anche la volontà della vita in qualche modo. Quindi insomma ecco questo potrei dire, questo riguarda me, riguarda mia sorella, riguarda tante donne.

Ecco allora io tutte queste tematiche diciamo personali… in una certa parte della mia vita ho iniziato ad affrontarle attraverso il medium artistico. Intanto sin da piccola ho scritto tantissimo, ho conservato questa abitudine, anche un po’ adolescenziale in qualche modo, della scrittura che poi si è evoluta, ho trasformato, e poi attraverso l’arte visuale. C’è stata una lunga fase nella quale io ho avuto proprio bisogno di ripercorrere, in qualche modo, l’infanzia, attraverso per esempio il cucito, ho tanto cucito su carta. E poi conoscendo grandi artiste che mi avevano preceduto, ho capito che effettivamente quella scelta non era casuale, cioè che il cucire è ricucire  e che era probabilmente necessario proprio quel medium piuttosto che un altro. E ho lavorato proprio sulla relazione, in particolar modo con mia madre, ma non solo. Ho creato dei fogli, una sorta di libri d’artista fondamentalmente, unendo la carta, mettendo insieme in una forma simbolica quelli che erano i miei vissuti. Ed è stata una fase per me preziosissima però semplicemente una fase. Non è quello che continuo a fare, se non in parte.

Nel mio caso, nel caso di tante donne, tante artiste che conosco è avvenuto esattamente questo: cioè un utilizzo spontaneo, intuitivo, di certi strumenti artistici, in determinate fasi della propria vita, per andare a rielaborare delle tematiche in parte risolte, in parte sommerse che comunque agivano nella propria vita in una maniera inconsapevole. E attraverso questi strumenti sono emerse queste profondità: hanno preso forma, hanno preso un colore, sono diventate delle parole e quindi quello che è dicibile, quello che è osservabile diventa contenibile e anche rielaborabile perché poi si può continuamente rielaborare un manufatto che è frutto di un’espressione artistica. Quindi io direi proprio di sì, è una delle mie convinzioni in questa vita.

C’è stata anche una fase in cui ho utilizzato la metafora della creatura rispetto alle mie opere; a volte sentivo proprio l’urgenza di esprimere qualcosa esattamente come l’urgenza di un parto in qualche modo e il non riuscire a farlo produceva sofferenza, in qualche modo.

Diciamo che oggi questa immagine, questa metafora l’ho lasciata un po’ andare. Forse c’è meno urgenza, forse c’è meno il bisogno di definire, quindi di dare dei nomi alle cose. Ecco anche quella, la questione di dare i nomi, è stata anche quella una fase, per me necessaria, ma poi ne è sopraggiunta un’altra altrettanto necessaria, che era quella del bisogno di lasciare andare tutte queste definizioni e lasciare veramente un po’ che la vita fluisse più liberamente e che io attraverso la vita fluissi più liberamente. Però c’è stata una fase in cui avevo bisogno di definire le cose e quindi di dire: “questa cosa è una mia creatura, ora andrà nel mondo”. Oggi è più… nella mia immaginazione, nella mia fantasia, è proprio la vita che è la mia creatura e questo vale per tutti e tutte e va bene così.

Tornando al tema dell’arte e dell’espressione artistica, per quanto mi riguarda nella mia storia personale anche lì in una certa fase, anche lunga devo ammettere, fare arte è stato un modo per uscire dal mondo, cioè “è tutto il mondo fuori, ci sto io, la mia espressione” ma a un certo punto quella relazione tra me e il mio mondo interiore è diventata sterile, ma non perché il mio mondo interiore si sia esaurito ma perché non aveva per me più senso continuare avere una relazione che non fosse poi anche una comunicazione. Quindi è nata in questo modo l’urgenza di dare una valenza anche più ampia, più collettiva al fare arte. Spesso quello che riscontro è che veramente gli artisti parlano tra di loro, e magari si capiscono tra di loro, ed è meraviglioso perché gli artisti spesso amano gli altri artisti perché parlano un linguaggio comune e spesso vivono quel senso di appartenenza che magari nella gran parte della società non si vive, no? E quindi è una cosa grandiosa. Nello stesso tempo, per me almeno – parlo sempre, cerco sempre di parlare in prima persona – era diventata una cosa sterile che non nutriva più me e di cui stavo perdendo anche il senso. Cioè io oggi sono convinta che veramente possiamo un po’ tutti e tutte potenziare le nostre risorse e integrare l’arte nella nostra vita. L’arte non deve essere più, secondo me, qualcosa che sta all’esterno, che noi ci limitiamo a osservare, di cui nutrirci. È sempre un nutrimento, ma comunque passivamente, noi possiamo fare esperienza di altri aspetti di noi di cui a volte non facciamo esperienza per tutta la vita. Oggi l’arte va veramente esperita mangiandola, facendola, condividendola; uscendo un po’ da questo stato un po’ protettivo in cui spesso l’artista si auto-colloca, per difesa. Ma insomma possiamo fare di più che difenderci e basta.

In termini generali mi piacerebbe molto che si smettesse di considerare l’arte qualcosa di superfluo, qualcosa che abbellisce e basta, no? Senza escludere l’aspetto estetico – perché poi il bello, secondo me, fa anche bene, cioè c’è un bello che fa bene, quindi in realtà non è pura estetica, è un estetica che nutre – ma andando un po’ oltre vorrei che si capisse che è letteralmente essenziale, cioè che c’è una parte di noi che letteralmente morirebbe se non ci fosse questo nel mondo. Noi probabilmente lo diamo per scontato perché in realtà siamo circondati letteralmente di arte, cioè l’essere umano – poi noi che siamo in Italia capirai, come ti muovi sei circondato dall’arte che ben conosciamo… la musica, è molto più semplice capire quale impatto enorme ha nella vita delle persone… l’arte visuale forse ha un impatto meno potente inizialmente ma fa parte di questo nutrimento. La poesia… è così. Quello che desidererei è capire veramente il grande valore esistenziale per tutti e tutte dell’arte e poi che possa diventare uno strumento di libertà, di maggior libertà. Perché se la routine, se le abitudini, se la tendenza ad avere un pensiero circolare, a ripetere degli schemi nelle nostre vite è frutto di un automatismo, noi come possiamo rompere questo automatismo? Proprio introducendo delle varianti, la casualità, introducendo l’arte, la creatività, rompendo, non necessariamente con la lotta ma anche con la delicatezza, delle abitudini, contattando il nostro desiderio di poter essere altre cose oltre a quelle che già conosciamo. E questo, secondo me, è la cosa meravigliosa che può darci effettivamente l’arte e l’apertura, in generale, verso la vita.

Io il film me lo sono letteralmente mangiato, ho preso gli appunti come a scuola perché c’erano delle frasi che veramente mi risuonavano profondamente e raccontavano delle parti di me. Uno in particolare mi aveva colpito, pur essendo frutto dell’esperienza diametralmente opposta a quella che ho fatto io nella vita: era quella di una giovane donna che diceva che dal momento in cui era rimasta incinta aveva smesso di chiedersi cosa fare nella vita. Io credo che questa sia una condizione comune a molte persone, a me paradossalmente è proprio quello che invece mi ha sempre terrorizzata: avere la strada senza una via d’uscita, una strada già tracciata dalla quale letteralmente non c’è la via d’uscita, non si può tornare indietro, irreversibile.

E mi ha fatto venire anche alla mente alcuni studi che avevo fatto, in particolar modo un testo della Margaret Mead, che è una famosa antropologa, che in un suo testo faceva il confronto tra l’adolescenza dei paesi occidentali, in particolar modo negli Stati Uniti nel suo caso, e le isole Samoa. Nelle Samoa gli adolescenti avevano solo poche possibilità di scelta, cioè erano già incanalati, gli uomini a fare delle cose, le donne a fare altre cose… adesso non ricordo nello specifico quali fossero, possiamo in parte immaginare. C’erano due, tre scelte. E questo ovviamente era estremamente rassicurante perché l’adolescenza in quelle popolazioni non era così critica, drammatica, un passaggio così difficile, difficoltoso e invece in Occidente avere tutte queste possibilità creava, crea tutt’ora, ansia, confusione… E quindi mi aveva fatto riflettere questa cosa perché avere poca scelta è ovviamente rassicurante però anche limitante. Quindi, cosa possiamo imparare? A stare in qualcosa di indeterminato e accettare che non possiamo controllare tutto, lasciarci andare all’indeterminatezza ma anche alla ricchezza della vita che ci offre mille possibilità senza andarci a richiudere necessariamente in qualcosa che è sì rassicurante ma che poi chiude altre porte.

Però non volevo tanto ricavare una morale da questa cosa in realtà perché non me lo posso permettere, ma mi aveva colpito come fosse stata per questa donna un sollievo potersi liberare da tutte le inquietudini, immagino, delle domande che si stava ponendo. “Ok, so cosa devo fare! È questa, è la mia strada che è stata tracciata in qualche modo da questa biologia”. Poi io non so se era quello che voleva intendere lei, io dico quello che ha risuonato in me.

Oggi mi chiedevo questa cosa – oggi nel senso in questo periodo, non oggi proprio oggi: sono arrivata a un’età in cui la gente, anche per delicatezza, ha smesso di chiedermi certe cose. Fino ad una certa età si dà quasi per scontato che si possa chiedere alle ragazze: “Hai il ragazzetto? vuoi fare figli?”, oppure se ti sei appena sposata: “Quando li fai questi figli?”.  Io, evidentemente, ho raggiunto un’età in cui la gente per delicatezza evita proprio di chiedermi le cose. Ma forse dando per scontato che ci sia una sofferenza in questa mancanza e allora io penso che sia necessario che ci siano tutte queste pluralità di voci che tu stai raccogliendo, che il vostro progetto sta raccogliendo, per dimostrare che non c’è solo nella maternità gioia, nell’assenza di maternità sofferenza o mancanza. Cioè io faccio una mia esperienza che è completa, tu come madre fai la tua esperienza che completa, che è unica tra l’altro, non è riconducibile all’esperienza di un’altra donna, è la tua e va bene così; e la mia è ricca e piena, non è frutto di una mancanza. Come io non posso capire la tua esperienza di maternità tu non puoi magari comprendere la mia esperienza di non-maternità che però non nasce solo da una assenza ma che è completezza di altre cose. Quindi è molto importante, ritengo, dare spazio a queste voci che un po’ vanno ad annullare o quantomeno a ridimensionare questo stereotipo della donna, dove è “meglio che non glielo chiedi perché poverina magari sta soffrendo”. Io in questo momento non mi sento che soffrendo, non sento di star soffrendo per questa tematica. No, direi di no.

Però ecco anche un’altra cosa che forse ci tengo a precisare, che penso che poi le cose siano molto sfumate. Cioè io ho attraversato anche delle fasi in cui mi sono chiesta se li volevo soprattutto nell’approssimarsi della famosa scadenza biologica. Lì ho avuto, c’è stata quella fase in cui effettivamente ho avuto un po’ di pressioni dall’esterno, non tanto da chi mi era vicino ma un po’ più dai conoscenti: “Il figlio fallo, perché quello comunque resta, no? I compagni magari vanno e vengono ma quello ti resta” – come una cosa proprio da patrimonio, da possedere, come un investimento. Me lo sono chiesto, onestamente io me lo sono chiesto, però ogni volta la risposta era: “non a tutti i costi”, cioè non ho mai pensato di volerlo a tutti i costi. Questa è la risposta più autentica che sono riuscita a darmi. Poi se ci sono cose profonde, resistenze… non so, ci sarà sicuramente, senz’altro, anche se credo di avere indagato parecchio. Però la risposta più onesta che mi sono potuta dare è stata: “non a tutti i costi”, e credo di essere stata onesta perché sono serena ora che non ci sono quindi va bene così. »

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