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Io Non Sono Il Mio Aborto, Nessuna Donna Lo è. La Testimonianza Di Maria

Io non sono il mio aborto, nessuna donna lo è. La testimonianza di Maria

La testimonianza potente di Maria,  giovane studentessa universitaria, racconta la storia personale del suo aborto farmacologico, sfatando molti miti e pregiudizi della narrazione comune sull’interruzione volontaria di gravidanza.

«Ho abortito, adesso so dirlo, adesso posso dirlo.

Posso, perché ho imparato a dirlo a me stessa, perché ho imparato a riconoscere il significato che abortire ha avuto per me, non quello che mi è stato imposto per tanti anni dalle narrazioni patriarcali.

Abortire per me non è stato un atto di coraggio, il coraggio non è altro che il superamento di una paura.

Ma io non ho mai avuto paura di abortire, all’opposto ho temuto di non poter abortire.

Ho voluto abortire dal primo momento in cui ho compreso di essere rimasta incinta e non ho mai avuto dubbi o ripensamenti.

Al di là delle normali paure per un potenziale intervento, infatti, in me non vi è mai stata alcuna forma di timore o rimpianto dell’aborto, ciò che volevo era invece poter interrompere quell’evento biologico scatenato da una distrazione del destino che stava avvenendo all’interno del mio corpo, il prima possibile.

Abortire per me è stato scegliere me stessa quando non lo avrebbe fatto nessun altro.

Abortire è stato autodeterminarmi, riappropriarmi di me, del mio corpo, delle mie convinzioni di donna che nel profondo sa di non volere figli.

Abortire è stato conoscermi, conoscere il mio corpo ed i suoi limiti, conoscere me stessa nei miei più profondi e radicati pensieri e valori.

Abortire è stato ricostruirmi, ricostruire il significato di questo evento dando le mie spiegazioni e i miei significati senza lasciare il potere di decidere come sarebbe stato giusto viverlo da altri.

Ma soprattutto, abortire è stato il mezzo per confrontarmi con quello che sono e non con quello che avrei dovuto essere, per abbandonare finalmente le etichette, le imposizioni, i significati che il patriarcato impone alle donne in base alle loro scelte.

Abortire è stato, paradossalmente, confrontarmi con il mio istinto materno, riappacificarmi con esso, riappropriarmene totalmente, ed imparare a declinarlo come voglio, come sento, non come mi si vorrebbe imporre.

Il mio aborto è stata un’esperienza importante sotto tanti punti di vista, difficile sicuramente, anche se non come lo avrebbero voluto alcuni.

Non sono qui per vantarmi della mia scelta, anche se molti potrebbero pensarlo, sono qui per raccontarmi, per raccontare un aborto diverso da quello che da troppo tempo ci viene imposto.

Sono qui perché voglio che le donne che si ritroveranno nella mia stessa situazione possano nelle mie parole rivedere un pezzo di se stesse, perché possano ascoltare un racconto diverso di un qualcosa di talmente personale che sarebbe utopico credere di poter sintetizzare in un unico modo di essere vissuto. Ma soprattutto perché possano vivere la propria scelta senza il bisogno di etichettare i propri sentimenti come giusti o sbagliati, ma semplicemente vivendola e sentendola per come questa si presenta dentro di loro.

Ho avuto il mio primo rapporto sessuale a 22 anni e a quasi 29 conto solo due partner sessuali.

Non sono per tanto una persona sessualmente “libera”, anche se – ci tengo a precisarlo – questo non sarebbe stato e non è in alcun modo un fattore a me e a nessun’altra recriminabile.

Se racconto questo particolare, è principalmente perché la retorica antiabortista, tra le altre cose, vuole dipingere le donne che ricorrono all’aborto come persone dai molteplici partner sessuali, dalle discutibili (?!) abitudini e che proprio a causa di questa loro incoscienza finirebbero per ritrovarsi gravide senza volerlo.

Io sono la prova che anche tanta parte di questa narrazione non è reale e che tutte, perfino chi come me non ha, non vuole o non se la sente di vivere la propria sessualità in modo più “libero” di come ritiene di fare già nel momento in cui si approccia al sesso come lei stessa preferisce, può rimanere comunque incinta senza volerlo.

Nessuna donna vuole rimanere incinta se una gravidanza non è ciò che desidera in quel momento della sua vita o addirittura in nessun momento della propria vita, ma è bene ricordare che tutte le donne hanno il diritto di scegliere come tutelare il proprio corpo e come vivere la propria sessualità.

E la percentuale di sicurezza o di fallibilità di un metodo contraccettivo e, paradossalmente, perfino la scelta di non utilizzarne nessuno, non sono una scusa per colpevolizzare, recriminare o peggio “punire” chi finisce per ritrovarsi a vivere una gravidanza non desiderata.

Nessuno si sognerebbe di colpevolizzare un malato di cancro ai polmoni per aver scelto di fumare o un soggetto scampato ad un infarto per aver mangiato in modo inadeguato, né tantomeno si farebbero discorsi del tutto fuori luogo e privi di ogni forma di empatia sulle risorse impiegate dallo Stato per curare le loro patologie o le conseguenze delle stesse sulle loro vite.

Eppure, in modo del tutto illogico e privo di senso troppo spesso si assiste a retoriche colpevolizzanti verso chi sceglie, nel proprio potere di autodeterminarsi e del tutto tutelata dalla legge, di porre fine ad un evento che ha sede nel suo corpo e che in quanto tale non dovrebbe riguardare nessun altro.

Io ho abortito quando avevo venticinque anni, ero in una relazione stabile da tre anni, con quello che è stato il mio fidanzato per circa cinque/sei anni.

Sapevo già di non volere figli da molto tempo ed utilizzavo il metodo contraccettivo che ritenevo all’epoca più idoneo e, proprio per i motivi citati su, non mi dilungherò sullo specificarlo né tantomeno sul giustificarne la scelta.

Rimasi incinta i primi di dicembre, capii presto che dentro di me stava succedendo qualcosa di diverso, che non si trattava di un semplice ritardo.

Ho sempre avuto con il mio corpo un rapporto molto difficile e combattuto, ma anche molto intenso, motivo per cui le mie sensazioni non si rivelarono sbagliate.

I primi sentimenti furono una rabbia estrema e una frustrazione immensa per essermi sentita tradita dal mio stesso corpo.

Mi sentivo in trappola, sentivo di non essere più padrona di me e della mia vita, volevo che nel minor tempo possibile tutto tornasse come prima.

Non ci fu un attimo in cui non pensai che abortire non fosse la scelta giusta, non ci fu un ripensamento, un dubbio, un minimo senso di colpa, cosa che per altro nessuna dovrebbe mai provare quando sceglie ciò che ritiene il meglio per se stessa.

Non ci fu nemmeno un cenno di quel fantomatico e tanto decantato “spirito” del “da adesso sono mamma” che come narrato avrebbe dovuto venirmi addosso appena avessi scoperto o capito di essere incinta.

Dentro di me le uniche sensazioni che battagliavano per avere la supremazia l’una sull’altra erano l’ansia estrema per una situazione dalla quale puntavo ad uscire il prima possibile e la sudata razionalità con la quale cercavo di pianificare i passi da compiere per poter ricorrere all’IVG nel più breve tempo possibile.

Feci di tutto per ottenere l’IVG farmacologica, ero ancora nelle settimane consentite dalla legge per ricorrere a questa metodologia, così viaggiai fino a 70 km da casa per poter ottenere la mia RU486.

Ricordo ancora il giorno in cui mi misero davanti le pillole contenenti l’inibitore del progesterone, comunemente chiamate con la sigla appena citata su e di come le afferrai senza la minima indecisione, senza il minimo dubbio, con il timore quasi che da un momento all’altro potessero togliermele.

L’aborto farmacologico è un’esperienza intensa sia sul piano fisico che mentale, che però si veste di emozioni e sensazioni diverse in base a chi la vive.

A differenza della pratica chirurgica si vive il processo interamente in prima persona e con un quasi totale controllo sull’intero avvenimento.

E forse è proprio questo che spaventa tanto i detrattori della RU486, il totale controllo che la donna sperimenta sul proprio corpo, strappando l’aborto e di conseguenza la scelta libera di abortire dalla responsabilità di altri.

A parte il fatto di doversi recare in ospedale per poter ottenere materialmente la pillola inibitrice del progesterone, la verità è che durante tutto il processo siamo “sole”, o meglio, siamo del tutto autonome, il personale ospedaliero è lì solo per sorvegliarci e supportarci nel caso di possibili e alquanto rare complicazioni.

Ma siamo noi ed il nostro corpo a fare tutto, nessun altro interviene al posto nostro, vi è un’autodeterminazione completa che parte della scelta di abortire al processo dell’aborto stesso.

Il mio aborto è stato fondamentalmente una mestruazione più abbondante e più dolorosa, un qualcosa che avrei potuto vivere anche a casa e che vivevo in forma minore tutti i mesi.

Nulla di così traumatico come volevano farmi credere, a renderlo tale in parte lo sono state però la mia ansia accentuata per via del mio primissimo ricovero ospedaliero e la paura della sala operatoria (opzione molto rara attuata solo in caso di complicazioni).

Abortendo ho scoperto molto sul mio corpo, ho scoperto come è davvero, quali sono i suoi limiti e quale è il suo potenziale, ma soprattutto ho scoperto che nessuno può impormi un modo di sentire o di vivere un evento che, proprio per la sua forte connotazione fisica prima di tutto, e di conseguenza anche emotiva, si configura come qualcosa di troppo personale per prestarsi ad una sola interpretazione.

Ho abortito e abortirei di nuovo se mi capitasse nuovamente di rimanere incinta senza desiderare di esserlo.

Lo farei con molta più tranquillità e consapevolezza, e utopicamente viste le norme attuali nel nostro paese, lo farei tranquillamente a casa, con un’amica o qualcuno di fidato che fosse in grado di intervenire nel caso di complicazioni, il tutto stando sotto una delle mie coperte di peluche a guardare Netflix, con un antidolorifico a portata di mano e la possibilità di stoppare la mia serie preferita nel caso il dolore un po’ troppo forte mi richiedesse di sdraiarmi.

Abortendo non ho solo scoperto molto del mio corpo, ma anche molto di me.

Se la finalizzazione dell’IVG è stata il calmante che aspettavo da tempo per quell’ansia che da quasi un mese mi perseguitava è stata allo stesso tempo la tappa, se così possiamo dire, tra la me che non aveva mai abortito e la me che invece aveva non subito, ma scelto e vissuto consapevolmente il suo aborto.

È come se da quel momento avessi sentito di aver oltrepassato un confine, di essere finita dall’“altra parte” e che non era così bello starci.

Era una sensazione inconscia, una sensazione di mancanza, non però come madre mancata, non come vorrebbe la narrazione dominante, ma di un qualcosa che avevo perso come donna.

Non sentivo di aver perso un figlio, di aver perso l’opportunità di essere madre, non sentivo di aver perso qualcosa che avrei potuto avere o che avevo avuto per poco tempo, ma di aver perso qualcosa che avevo sempre avuto, una parte di me che abortendo avevo ceduto, o meglio una versione di me che da adesso stava cambiando sotto il peso di una specifica narrazione della donna che abortisce.

Ero passata in un attimo dall’essere una donna che non voleva figli (già abbastanza discussa così com’ero) ad essere quella che aveva scelto materialmente di non volerne riappropriandosi del proprio corpo e della propria vita, attraverso l’aborto.

Avevo passato il confine invisibile che divide le donne che non hanno mai abortito da quelle che invece hanno scelto di abortire.

Un confine quasi impercettibile come tanti altri posti dalla società, ma che si sente, allo scopo di dividere e categorizzare le donne e la percezione che si ha di esse.

Un confine che identificherei con quella sottile sensazione strana e labilissima di angoscia, di perdita che fatico perfino ad incasellare in questi termini che per tanto tempo e in parte anche adesso, provavo senza volere quando ad esempio mi si parlava di una donna soffermandosi sul fatto che non aveva figli.

Lì in fondo, da qualche parte dove non sono nemmeno in grado di vedere nella mia mente, si deve essere annidata già nell’infanzia una certa visione stereotipata che sfugge al mio pensiero cosciente.

Una visione della donna come un vuoto che va riempito con la maternità, come un vero e proprio oggetto che può perdere valore in base alle sue scelte e alle tappe della sua vita.

Ed ecco che io in quel momento, passando quel confine invisibile, mi ritrovavo doppiamente vuota, sia come donna che non desidera figli evitando la maternità, ma ancora di più come colei che rinuncia materialmente e fisicamente a quest’ultima quando si è già potenzialmente presentata.

La maternità, si sa, è un qualcosa di intoccabile nella nostra società e, se non assecondarla fa di noi donne esseri biasimabili, il rifiutarla e rigettarla quando ci viene quasi imposta dalle coincidenze della vita fa di noi dei veri e propri esseri infernali da rispedire nel sottosuolo.

E così, senza nemmeno accorgermene, sono finita in un loop di pensieri, confronti e paradossi logici tra come mi sarei dovuta sentire, come e quanto avrei dovuto soffrire il mio aborto, dimenticandomi totalmente (o quasi) di come invece lo stavo vivendo.

La mancanza di senso di colpa divenne senso di colpa per la mancanza stessa.

Il fatto che fosse stata senza ombra di dubbio la scelta migliore per me, quella che davvero sentivo mia e tuttora sono fortemente consapevole lo fosse, scomparì piano piano sotto il peso di una visione estremamente critica di me stessa.

Ero una persona cattiva perché avevo scelto di abortire?

Lo ero ancora di più perché lo avevo fatto senza il più piccolo rimorso?

Ero davvero un essere infernale e malvagio per non essermi sentita “madre” come mi si diceva avrei dovuto appena scoperta la gravidanza?

Per la società sì, e purtroppo perfino per me stessa mi convinsi di esserlo per parecchio tempo.

Sembrava che una semplice scelta, mia, solo mia, potesse condizionare tutto quello che ero, cancellare ogni mia buona azione, ogni mia buona intenzione ed ogni mio sentimento d’amore verso le persone a me vicine.

O almeno questo è quello che la narrazione dominante dell’aborto vuole far credere.

Io non sono cattiva perché ho abortito.

Io non sono cattiva perché ho scelto e risceglierei mille altre volte di abortire, perché ho vissuto questa esperienza con un profondo senso di liberazione e non di rimorso o perché non mi sono sentita subito “madre” appena ho capito di essere rimasta incinta.

Non è l’abortire o il portare avanti una gravidanza, come non è l’essere o meno madre che determina la qualità della mia persona, la purezza dei miei sentimenti e la mia capacità di amare.

Così sono finita a riflettere profondamente su chi fossi e, da questo confronto con uno stereotipo intriso di tutto il peggio che possa esistere e che come donna che aveva abortito sentivo di “aver” incarnato, ho iniziato a riappropriarmi davvero di me.

Scegliere di non avere figli non è mai così assoluto finché non ti ci trovi davvero davanti a quella scelta, soprattutto se inaspettata.

Nel peggio dell’inconveniente dell’essere rimasta incinta devo però riconoscere il lato positivo dell’aver avuto l’occasione di confrontarmi seriamente con il mio desiderio di non maternità.

L’ho osservato, compreso e conosciuto, l’ho visto materializzarsi davanti a me e l’ho integrato in modo più maturo e consapevole alla mia persona.

Abortendo ho avuto l’occasione di elaborare e comprendere l’intensità di questo desiderio di essere una non-madre di altri, ma allo stesso tempo invece di essere madre di me stessa e della vita che desidero generare.

Ho sconfitto gli ultimi traumi e le ultime paure che mi portavo dietro nei confronti della maternità e che rendevano la mia posizione verso il non voler procreare non del tutto mia. Ho scoperto chi sono in modo molto più profondo, ho ripreso in mano la mia visione di me stessa e perfino del mio istinto materno.

Già. Perché non volere figli non significa non possedere un istinto materno.

L’istinto materno è un dono che le donne e spesso non solo loro possiedono, è la capacità di creazione e di totale dedizione ad essa che in natura si declina specificatamente nella procreazione, ma nella società odierna diviene forza innata che può essere impiegata dove e come si vuole.

È determinazione, coraggio, empatia, cuore. È una marcia in più che ci permette di essere tutto quello che vogliamo.

L’istinto materno non è solo essere biologicamente madri, o meglio è anche quello, ma è tantissime altre cose.

È prendersi cura dei più fragili, battagliare per le proprie idee, superare i propri limiti e raggiungere i propri obiettivi, è la nostra capacità di creare la realtà che desideriamo intorno a noi.

Siamo in grado di dare vita, ma sta a noi scegliere in che modo sfruttare questo dono.

Ciò che non dobbiamo permettere è che la società nel tentativo di gestirci meglio finisca per imporci una sola maniera considerata lecita di sfruttare queste nostre capacità.

Io ho abbracciato totalmente il mio istinto materno, la mia voglia di creare la realtà che desidero per me e per chi amo e ho smesso di ignorare questa forza che ho dentro per paura di assecondare il patriarcato.

Piuttosto me ne sono riappropriata per poterla sviluppare e sfruttare come decido io.

Sono rimasta incinta senza volerlo e di certo non vorrei rivivere quella stessa situazione, ma non posso negare che da questo avvenimento, che ha portato alla mia scelta di abortire, ne sia poi uscita migliore, più forte, più consapevole.

Sì, migliore, e se qualcuno dovesse storcere il naso o accusarmi di eccessiva freddezza e dovesse riprovare ad attaccarmi l’etichetta di “mostro”, stavolta resterebbe un semplice pezzo di carta attaccato al mio maglione.

Io non sono il mio aborto, nessuna donna lo è.

Io sono una donna che ha scelto di autodeterminarsi, di fare ciò che ha ritenuto meglio per se stessa.

Io sono le mie azioni giornaliere, i miei sentimenti più autentici, i mie pregi e i miei difetti, i miei punti di forza e quelli di debolezza, sono le mie imperfezioni, i miei sogni, i miei valori e i miei ideali ma sono soprattutto la mia capacità di camminare nel mondo con determinazione quanto basta per portare avanti le mie idee e, contemporaneamente, con la gentilezza necessaria ad accogliere e comprendere la diversità di sentire di chi ho davanti.

Nessuno, proprio nessuno può permettersi di etichettarmi come meglio crede, né me né nessun’altra donna che con coraggio sceglie ogni giorno chi essere e quale sia il significato più appropriato da dare alla sua vita, senza permettere che gliene si imponga uno.»

 

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Deva Najma
Deva Najma
2 anni fa

Vero e crudo come solo l’onestà intellettuale ed emotiva può dettare.
Ho vissuto la stessa esperienza ,e mi riconosco nella narrazione , diretta e sincera.
Grazie per aver reso questa esperienza ” comune”, nella condivisione.
Con riconoscenza e gratitudine

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