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Nella cornice dell’amata Carloforte, Lea Melandri, insegnante, saggista, attivista del movimento delle donne italiano, racconta per schegge e frammenti il suo percorso di definizione di sé, dall’infanzia al femminismo, dalla lettura e curatela di Sibilla Aleramo alla psicanalisi e alla pratica di scrittura esperienziale attorno ai temi cardine della sua riflessione: il sogno d’amore, la relazione madre-figlio, il dualismo corpo-mente, la singolitudine.

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Ecco la trascrizione completa del video:

RAMI SECCHI
« Non mi piace, non mi piace perché… perché lo trovo di una profonda misoginìa. Profonda perché fa riferimento alla fertilità, no? La donna vista essenzialmente come colei che produce figli, genera figli, quindi collegata con la natura, alla terra, appunto alla fecondità, alla fertilità. Quindi è un’immagine, come dire, che fissa la vita delle donne in una sorta di determinismo biologico. Quindi direi che è proprio l’espressione peggiore. Eh no? Poi gli alberi, sì è vero, gli alberi sono belli quando hanno foglie, quando hanno fiori; il “ramo secco” è davvero l’elemento che va a perdersi, no? È la morte, qualcosa di… io lo trovo molto… trovo che anche usarlo provocatoriamente… trovo che resta molto ambiguo. Il rischio è che venga preso sul serio. Noi non dobbiamo… in tutta la storia delle donne del femminismo, l’ironia va presa con molta prudenza, perché di fatto, come dire, il pregiudizio è talmente radicato, ha secoli alle spalle, per cui è difficile quello scarto che crea l’ironia, che crea la distanza. Quindi bisogna usarli con molta prudenza, si può far riferimento, ma metterlo come titolo… io avrei dubbi. »

TU QUANDO HAI COMINCIATO A SENTIRTI DIRE: “QUANDO FAI UN FIGLIO?”
« No, devo dire per mia fortuna, forse è una storia un po’ particolare, non me lo sono… nessuno me lo ha mai chiesto. Perché? Intanto perché non desideravo… si capiva che non avevo nessuna propensione per il matrimonio, per le convivenze, per la vita di coppia, per creare una famiglia. Ecco sì, si è capito, cioè la mia è una storia, ripeto, un po’ particolare. Perché sono figlia di… vengo da una famiglia contadina, molto povera, di mezzadri di Romagna. Il mio paese è Fusignano, in provincia di Ravenna. Era una famiglia numerosa, eravamo otto, tre nuclei famigliari. Io ero figlia unica ma famiglia numerosa, perché eravamo tre nuclei familiari, stipati in una cascina, in due stanze senza bagno, quindi una condizione davvero… fino agli anni Sessanta, cioè fino a quando ho avuto vent’anni, era da “L’albero degli zoccoli”. Quindi una condizione contadina molto… di grande povertà. E io figlia unica, pur – dicevo – in questa famiglia numerosa e questa passione per lo studio evidentemente mi ha configurato subito come un elemento anomalo. E per fortuna – dicevo – questi due genitori hanno evidentemente… avere una figlia… poi avevo i capelli rossi, nessuno in famiglia aveva i capelli rossi ricci, che studia, che è brava a scuola. Evidentemente hanno investito su di me, cioè hanno visto una possibilità anche di riscatto sociale. Quindi io mi sono pensata un po’ come un’idea dei miei parenti. Ero né figlia, né maschio né femmina, ero un essere un po’ anomalo e non mi hanno… da parte dei miei genitori non c’è mai stata un’indicazione, mai – come dire – non si profilava un futuro di moglie, di madre, di altra famiglia. Semplicemente mi dicevano: “se non sei brava a scuola, cioè se prendi un 5…” perché era… l’immagine era questa: “vai o a fare la sarta o a zappare”. Io temevo più far la sarta che zappare, ma insomma entrambe le cose non… mi hanno costituito uno spauracchio di fondo. Ma mai, ecco, non c’è mai stata l’idea… non ho mai sentito nel loro sguardo, nel loro affetto e, soprattutto, nel loro impegno, nei loro sacrifici per farmi studiare, non c’era la prospettiva del destino femminile. C’era l’idea di qualcosa d’altro – ripeto – molto anomalo, perché io vengo appunto da famiglie contadine, dove nessuno aveva mai studiato, dove le donne si sposavano anche presto, lavoravano nei campi e quindi non c’è stata quest’idea. Anzi, mi ricordo che, se devo dire una di quelle frasi che restano scritte nel cuore, nella mente, a caratteri di fuoco, di mio padre al primo innamoramento… mio padre mi ha detto: “o si studia o si fa l’amore”. Io ho detto: “studio, naturalmente. Studio”. E così è stato. Quindi, io direi che sono stata un po’… ero la loro figlia che studia. E tale – devo dire – anche adesso che non ci sono più, tale mi penso ancora. Cioè io sono la loro figlia che ha studiato, che ha avuto questo destino. E pur crescendo in un paese dove il destino delle donne era quello di far famiglia, devo dire che il fatto che io studiassi con tanta passione – io ho fatto un buon liceo di provincia a Lugo di Romagna -, questa passione di studio, in qualche modo, è come se mi avesse creato una cortina protettiva rispetto a quello che è l’attesa non solo della famiglia ma del paese. Poi, è vero, ci sono state vicende più complesse, anche molto più dolorose di un matrimonio. Un matrimonio c’è stato nella mia vita. Durato tre mesi, ma un fidanzamento che l’ha preceduto… in questo però – devo dire – è stato qualcosa di… una forzatura, qualcosa di imprevisto, di forzato anche per i miei genitori che – ripeto – non avevano per me l’idea, non mi hanno mai dato l’idea: “ti devi sposare, sarai madre, moglie”.
Non ricordo di aver avuto bambole, non ricordo di aver avuto giochi femminili. Nel senso che in campagna… Ecco, i ricordi più belli sono… fino quelli dell’infanzia, della pre-adolescenza, anche – ripeto – durissimi, perché questi miei parenti lavoravano in campagna, un lavoro duro, c’era anche molta violenza, nel senso… determinata, anche nei rapporti uomo-donna, molto violenti. Donne… ecco, figure molto ambivalenti, molto ambigue. Donne forti, queste donne romagnole, che erano tanto lavoratrici quanto ballerine di liscio eccezionali, vitalissime. E anche con un forte potere affettivo e di cura, diciamo rispetto ai loro uomini, ma sottomesse. Quindi sono uscita – diciamo – da questa famiglia con le idee un po’ confuse sulla relazione uomo-donna e con l’idea che il mio destino era diverso. Non mi sono mai posta il problema. Però questo matrimonio è stata una parentesi dolorosissima – dicevo. Le ragioni poi profonde sono tante, andrebbero analizzate. C’è stata una forzatura dei miei, nel momento in cui mi ero fidanzata. In paese ci si fidanza in casa. C’è stata una forzatura dei miei genitori, a quel punto bisognava sposarsi. Io ho detto che non avrei voluto. Tra l’altro poi avevo lasciato quelle testimonianze: lettere alle amiche in cui dicevo che ero contraria al matrimonio, che non volevo figli, quindi c’erano tutte le condizioni diciamo per pensare un destino completamente diverso. E quindi questo matrimonio è avvenuto nella mia contrarietà, i miei genitori hanno obbedito a una logica un po’ di paese, un po’ di bisogno anche. Perché intanto quello che sarebbe stato il futuro marito aveva costruito una casa dove sarebbero andati i miei, quindi avevo due case, un cortile in mezzo, stretta fra due famiglie. È una storia dolorosa, di cui ho sempre parlato molto poco, anche per rispetto delle persone implicate in questa vicenda, durata tre mesi. Mi sono sposata nel luglio del ‘65 e nel settembre del ’65 ho preso servizio… del ‘66 ho preso servizio, ero già di ruolo, a venticinque anni, nel mio liceo, coi miei professori, eccetera. E una mattina ho preso il primo treno, naturalmente una decisione maturata nel profondo da anni, e sono arrivata a Milano. E lì è cominciata un’altra storia.
Dicevo, questo passaggio è stato molto doloroso. Che poi ha avuto strascichi, ovviamente. Sai, figlia di contadini, brava a scuola, tutto a posto, tutto regolare. Nella vita del paese ero una figura esemplare. Quindi questa fuga nel ‘66 da un paese, un piccolo paese contadino naturalmente ha avuto degli effetti anche sulla mia famiglia, che per fortuna è una famiglia, devo dire, due genitori, due ballerini di liscio, lavoratori eccezionali, generosissimi, i quali – dopo anni – han detto: “sì, dopo quella disgrazia che abbiamo avuto che ci è scappata la figlia, abbiamo ripreso a ballare”. Questo lo racconto per dire quanto questi due genitori… quanto mi hanno amato, pur in questa vicenda. Un matrimonio che poi è stato annullato dalla Sacra Rota, perché il marito era cattolico e anche io allora. E sono molto contenta, devo dire, non sono più cattolica da tanti anni. Però che sia stato annullato, come non avvenuto, per me è stato molto importante. Perché non è mai avvenuto. In realtà io avevo lasciato testimonianze, c’erano tutte le clausole del vizio di consenso, tutte le clausole che prevede la chiesa cattolica per l’annullamento, compreso il fatto di non aver avuto rapporti sessuali. E quindi, come dire, questa vicenda… ripeto, le ragioni sono molte, sono profonde, però non ha intaccato, ecco, diciamo, questa continuità nell’idea mia, di me stessa, che non avevo nessuna intenzione di fare famiglia, di fare figli, di essere madre, moglie…non c’era quest’idea. »

C’E’ STATO UN MOMENTO IN CUI L’HAI PROPRIO DECISO O AVUTO CHIARO CHE QUELLA ERA LA TUA DECISIONE?
« Intanto, devo dire, sì, io non ho mai avuto l’idea della coppia, della famiglia, matrimonio, convivenza, eccetera. Mentre sicuramente molto presente nella mia vita è il sogno d’amore, la passione, l’amore come passione, come momento esaltante di fusione di anime. Che poi tutta una vicenda che ho tentato di … che ho rivissuto un po’ attraverso la lettura di Sibilla Aleramo, perché Sibilla Aleramo duecento amanti, io pochissimi. Però la logica è la stessa ogni volta, cioè ogni volta ricostruire con l’altro questa fusione sublime, la fusionalità, il sogno d’amore come sogno di armonia, di composizione degli opposti, che è stato poi un tema ricorrente della mia riflessione. Negli anni ‘80 il mio libro “Come è nato il sogno d’amore”, anche se non è un racconto di vita, non è un’autobiografia, però è il più autobiografico. Quindi la passione d’amore risponde a un’idea di eternità. È il “per sempre”, no? è qualcosa di… è come dire un ideale di armonia perfetta fuori dal tempo. Quindi è fuori dal tempo, fuori dalla costruzione della relazione. E quindi io attribuisco anche a questa continuità nella mia storia, il sogno d’amore, il fatto di non aver poi ogni volta, anche quei pochi rapporti che ho avuto, non avevano la prospettiva né della convivenza né… l’unico momento in cui si è vagamente, ripeto proprio molto velatamente prospettato, è stato nel rapporto più importante forse, il primo e il più importante, con Elvio Fachinelli, lo psicanalista che è morto nel ‘89. Noi abbiamo avuto una relazione che era l’impegno, noi abbiamo messo in piedi la rivista “L’erba voglio”, che è stata una rivista molto importante degli anni ’70. E facevamo insieme la rivista e abbiamo avuto una relazione che è durata cinque anni. E lì vagamente, velatamente: “si potrebbe avere un figlio”. E lui mi ha detto: “sì, vi vengo a trovare”. E io ho fatto così… ho capito. In realtà io volevo fare la rivista. La creatura vera era la rivista: cominciavo a scrivere, era l’inizio della mia scrittura pubblica, avevo cominciato, conosciuto il femminismo nel ‘71, quindi ero io che nascevo in quel momento. Non c’era… quindi, ripeto, era stato così un accenno velatissimo. Dopodiché non mi sono mai posta il problema di… non c’era neanche l’idea del “faccio o non faccio un figlio”, non si poneva nei termini di scelta. Probabilmente io credo proprio perché… intanto perché mi sono vissuta come figlia e tutta la mia… mi chiedevo anche, pensando a questo incontro che avremmo avuto, mi chiedevo come mai io non mi sono… cioè la prima volta che mi sono posta in modo diretto, specifico, il problema dell’avere o non avere figli è stato quando Paola Leonardi e Ferdinanda Vigliani sono venute a intervistarmi.
Però poi ho pensato, pensavo in questi giorni, che indirettamente invece… in realtà io ho affrontato questo tema mettendo al centro della mia ricerca, anche teorica, la questione dell’origine del rapporto tra i sessi, l’origine cioè, questa differenziazione così violenta tra natura e cultura: la donna relegata nel corpo e l’uomo legato alla storia. In realtà io ho messo sempre al centro la questione madre-figlio in particolare, più che figlia/figlio, perché nella coppia io considero, nella mia ipotesi diciamo, c’è l’idea che la relazione madre-figlio sia l’impianto originario di questa differenziazione violenta, nel senso che è nello sguardo dell’uomo-figlio che si costruisce quest’idea di un corpo femminile potente, in un corpo che all’inizio è stato pensato un corpo che genera da sé, c’è voluto molto tempo prima che gli uomini realizzassero la loro partecipazione al processo generativo. Questo corpo femminile con cui sei stato tutt’uno all’origine, nella fase iniziale della vita, questo corpo che ti nutre, che ti mette al mondo, ti nutre, ti dà le prime cure, ti dà anche le prime sollecitazioni sessuali. Quindi intrigante, un corpo intrigante, potente, minaccioso e desiderato – quindi – è nello sguardo di un figlio. Io probabilmente mi sono pensata anche come figlio maschio. Il mio destino, il fatto di aver studiato per una femmina, figlia proveniente da una famiglia contadina, studiare era percorrere una strada che era quella prevista per il maschio semmai. Non è casuale la messa a tema, la centralità che ha preso la questione madre-figlio, anche nei miei studi, nelle mie riflessioni teoriche. Perché io, probabilmente, mi sono pensata come figlio. Inevitabilmente. Essendo, come dire, una figlia femmina, di famiglia contadina, che studia, ha davanti una prospettiva che storicamente è stata quella maschile. Fortuna volle che mia madre volesse una figlia invece, coi capelli rossi, che lei imbellettava, lei mi pensava come una bambola. In realtà io avevo capelli già ricci, lei di notte mi faceva i boccoli. Non so, mi svegliavo la mattina coi pendolini, quindi ero una bambola. Mi vestiva con grandi sacrifici, mi vestiva molto bene, colorata. Ero già coloratissima ma insomma lei insisteva sul colore, quindi voleva una femmina. Questo, secondo me, mi ha trattenuta dal diventare una donna… nell’assumere un tratto più decisamente da emancipata in chiave maschile – diciamo – questo dualismo è stato la mia dannazione e la mia fortuna. Il dualismo era tra la condizione contadina e la scuola. Io ho sofferto molto nel passaggio. Quando sono entrata in questo liceo, un buonissimo liceo, la cultura mi ha salvato, ovviamente, anche da questa… anche dagli aspetti più dolorosi e più violenti della condizione sociale di questa famiglia povera, ripeto, e dove la violenza c’era come in molte famiglie contadine allora: le donne venivano picchiate nonostante fossero, ripeto, molto forti. La cultura ha segnato uno stacco per me molto violento, una salvezza, perché mi ha aperto una prospettiva di mondo. Certo non era l’emancipazione, l’emancipazione poi ho avuto modo di confrontarmi con donne che hanno avuto percorsi diversi dai miei nel femminismo, l’emancipazione è quella di donne che venivano da classi sociali già in parte emancipate, voleva dire viaggiare… io ho avuto paura dei treni fino a vent’anni, non ho vergogna a dirlo. Il primo treno che ho preso con un’assoluta felicità è stato quello della fuga dal mio paese. Ma io avevo… io ho avuto un’occasione per uscire dal paese a diciotto, diciannove anni. Avevo vinto la borsa di studio alla Scuola Normale di Pisa, che era un grande… allora era una grande… E lì però, il primo distacco – probabilmente – dal paese, qualcosa lì è scattato. Tanto che dopo due anni sono ritornata, ho insegnato per altri quattro anni in supplenza del mio professore di filosofia al liceo. Quindi molto duro questo percorso fino ai venticinque anni. E soprattutto non c’era l’emancipazione che molte altre donne hanno conosciuto. Cioè la cultura emancipa, certo, apre spazi nel pensiero, ma non ti emancipa i piedi. I piedi erano legati al mio paese, erano lì in quella terra, in quella famiglia contadina. Io ho vissuto con molto dolore negli anni del passaggio al liceo questa separazione, questa contrapposizione tra corpo e mente, tra condizione contadina e questa cultura alta. Io cominciavo… il tentativo mio era di tradurre questa esperienza di corpi, di fisicità, di natura, di terra, di tradurla nei termini alti della filosofia, della letteratura. E per fortuna avevo dieci chilometri in bicicletta tutte le mattine, venti andata e ritorno, in cui potevo smaltire anche il peso delle notti di questa fatica, di questo dolore, di questa violenza. Ma è stata molto combattuta questa dualità, ed è diventata il tema centrale di tutta la mia ricerca. Così come il tema dell’origine, perché questa violenta separazione tra corpo e pensiero… ecco, molto faticoso – ovviamente – per me aprirmi uno spazio. Non c’era spazio fisico, eravamo stipati in due stanze, c’era una grande promiscuità. Per fortuna c’era la campagna, ecco, gli alberi per me – in realtà – non son secchi. Gli alberi sono pieni di foglie, perché mi nascondevano, mi permettevano di isolarmi, erano accoglienti. Come questo mandorlo. Ecco io adoro questo mandorlo, perché abbraccia questa casa. I primi anni, quando ero più agile, stavo sempre sul ramo del mandorlo. E ecco, quindi, vi erano gli alberi. E però – devo dire – poi dovevo studiare e preparare le lezioni, in questa casa, in mezzo a questi corpi. E quindi la prima stanza, io dico sempre, è stata il mio pensiero. Mi sono dovuta aprire uno spazio di solitudine e di riflessione nel pensiero. E questo anche ha segnato a proposito dell’avere o non avere figli. Ha segnato il mio percorso successivo, quest’elemento che io non chiamo di solitudine, chiamo di singolitudine nel senso che c’è l’essere soli ma non nel senso della solitudine. Io ero in compagnia, tutti i mille autori, le cose che leggevo, la scrittura è stata una grande compagnia. Quindi non era la solitudine, è un elemento di singolarità. Cioè io non ho avuto interlocutori in questa famiglia, non erano, non potevano essere interlocutori. Infatti credo di aver costruito poi, nel corso della mia vita, tanti paesi ogni volta. Quando ho insegnato nel ‘68 a Milano, ero già a Milano, ho insegnato per dieci anni in una scuola media a Melegnano, che era una cittadina a trenta chilometri da Milano, anche lì cultura contadina. Poi, dal ‘76 al ’86, in un quartiere di Affori con Masina a Milano, di nuovo un altro… e poi qua. Questo però è il mio paese ideale, ecco, quindi devo dire qui è stato veramente l’approdo più importante, ma sempre con grande amore per il paese, per le tradizioni del paese. Evidentemente quest’origine ha lasciato un segno profondo ecco, e dove l’elemento della singolitudine, come lo chiamo io, è stato centrale, centrale per tutto il percorso della mia vita, cioè è lì, e in questo io dico sempre non c’è scelta in questo, c’è un tratto di destino che viene dalla nostra storia d’infanzia e adolescenza e c’è – come dire – c’è poi un fare di necessità virtù, si dice banalmente, ma è soprattutto stato col femminismo che io ho potuto dare un segno diverso a quello che era il destino anche doloroso, a caricarlo, a dargli – come dire – anche una prospettiva invece di grande novità, radicalità, originalità. Il poter vivere la singolarità, io lo considero un privilegio doloroso, con dei tratti dolorosi, ma un privilegio. Ma questo uscire dalla logica che se non sei in due, se non hai il figlio su cui riprodurti, se non hai la famiglia, ecco uscire dalla logica… quello che l’Aleramo chiama “il fastidioso obbligo di vivere per sé”, io su quello ho davvero lavorato molto, su questo … per riuscire ad avere, a vivere nella singolarità senza necessariamente… L’amore, se c’è, deve essere una cosa in più, che – detto così – uno dice: “ma come, l’amore è la cosa centrale della vita delle persone”. Io ho lavorato molto su di me perché l’amore fosse, se c’è, una cosa in più, importante. Però l’essere con se stessi, con se stessi ovviamente per me è anche il punto di partenza indispensabile per creare delle relazioni d’amore, d’amicizia, che siano vere relazioni di reciprocità, non di aggrappamento reciproco. »

SIBILLA ALERAMO
« C’era sicuramente, in questo libretto che avevo trovato a quattordici anni, un accenno alla vicenda autobiografica di Sibilla Aleramo, il fatto di questo matrimonio di cui racconta nel romanzo “Una donna”, l’abbandono del figlio quando lei decide di lasciare il marito e il figlio. Il figlio poi l’avrebbe voluto tenere, il figlio, ma allora per la vicenda non era possibile. Quindi, insomma, Aleramo che sceglie fra essere madre e donna, dice “in me la madre e la donna non si integravano”, no?… che è la vicenda che racconta nel romanzo “Una donna”. Io l’avevo letto, poi l’ho ritrovato negli anni del femminismo. Però non mi aveva ancora colpito molto, sicuramente era rimasto – credo – il segno più che della lettura del libro, era rimasta – a quattordici anni – l’idea di questa vicenda di provincia, un matrimonio non voluto, qualcosa che forse, chissà, prefigurava anche un destino anche mio. Lì eravamo nel Novecento, è stato nel 1905 che è uscito il libro “Una donna” che fece molto discutere. No? Era la prima volta che si metteva in discussione così, in modo così… con tanta consapevolezza, la dedizione materna, il sacrificio materno, la perdita… questo – come dire – trasferire la propria vita sull’altro. Insomma, era stato un libro molto importante all’epoca. E molto importante nella riscoperta che ne ha fatto il femminismo, che era il momento in cui si mettevano in discussione i ruoli ed era stato per me il femminismo, quello che ho conosciuto, all’inizio degli anni ’70, quello della pratica dell’autocoscienza, della pratica dell’inconscio, il femminismo che scopriva l’individualità femminile in cui si diceva: “le donne finora sono state inesistenti non perché non siano esistite, ma sono esistite dentro a dei modelli, dentro a una visione del mondo che non hanno creato loro”. E si parlava di violenza invisibile per dire la visione del mondo fatta propria, interiorizzata, ma dettata da altri. Quindi era la scoperta dell’individualità femminile. Si diceva: “le donne sono state espropriate del loro essere individui, persone, no? sono state collocate dentro a delle funzioni a dei ruoli come destino, naturalizzati”. Ecco, per me questa è stata la grande… come dire un’altra nascita, era la nascita nella consapevolezza, anche della vicenda… mi permetteva di rileggere la mia vicenda, che era stata una vicenda anche di grande solitudine, di dolore, di rileggerla in questa chiave di riscoperta di una possibilità per le donne di viversi come individui, come persone non necessariamente né riproduttive, né adibite alla conservazione della vita, come individui, come persone. Quindi è stato un atto di nascita straordinario, per me, il femminismo. Ecco lì – come dire – la vicenda personale del non aver avuto figli e questa nascita, questo senso nuovo che davamo alla singolarità del nostro essere, ecco lì si sono incrociate. Lì probabilmente l’interrogativo sul perché non aver avuto figli è andato perso, si è perso immediatamente, cioè non c’era mai stato molto forte e lì si è perso del tutto, perché lì nasceva questa possibilità. E io penso che per molte della nostra generazione – molte hanno avuto anche figli allora – , però c’erano più che donne del passato, figure esemplari come dicevi tu, io ho visto attorno a me delle donne che in quel momento scoprivano con felicità la loro esistenza. È vero le madri sono state penalizzate nel decennio degli anni ‘70, molto penalizzate, nel senso che non si discuteva della maternità, dell’avere figli nel senso di madri reali diciamo. Nei convegni erano sempre appartate, perché non si faceva molta attenzione. Si è discusso molto da figlie ecco: il femminismo è stato una generazione di figlie che si ribellavano alle madri. Quindi lì mi sono ritrovata perfettamente. E ho pensato che si apriva un cammino che poteva durare una vita. Questo interrogativo e questa costruzione su di sé, di sé come persona, come individui, io ho pensato sempre che durava una vita. E per me così è stato. E poi la scoperta dell’Aleramo è avvenuto in un modo abbastanza particolare, perché alla fine degli anni ‘70 era uscito il primo libro. L’Aleramo aveva lasciato in due enormi valigie i suoi diari, tutta la produzione dei suoi diari, che ha occupato moltissimi anni e che forse – almeno a mio avviso – è la scrittura più interessante, più originale di Aleramo, più che le poesie e altro. L’ha lasciata a Feltrinelli, aveva bisogno di soldi, l’ha venduta a Feltrinelli. La casa editrice li ha tenuti da parte, non li aveva mai… erano scritti a mano, non li aveva insomma pubblicati in sostanza. E lì è stata Alba Morino, che era dell’ufficio stampa, lavorava alla Feltrinelli e aveva pubblicato… era uscito… “Gli ultimi anni”, il “diario degli ultimi anni”, mancava la parte che riguarda la relazione di Aleramo con Franco Matacotta. Aleramo sessant’anni, lui vent’anni, una storia madre-amante. E lì Alda Morino mi ha chiamato e ha detto: “ho questo inedito dell’Aleramo, secondo me è un libro che a te piacerà molto, madre-amante, ecco la questione del madre-figlio”. E molte delle mie amiche hanno pensato… beh, molte – beh non molte – insomma qualcuna, leggendo anche quello che ho scritto nella prefazione a questo libro, a questa parte di diario del rapporto con Matacotta, ha pensato che io avessi figli. Molte hanno pensato che io avessi figli. Per questa centralità. Mentre anche in questo caso quello che a me interessava era proprio nella diversità di età in questa relazione, che sicuramente avviene sul finale della vita, avviene quando l’Aleramo ha già sessant’anni e in questo c’è – come dire – evidentemente la vicenda di aver abbandonato il figlio. Si innesta – diciamo… questo sogno d’amore della fusione di due anime si innesta con la vicenda originaria della fusionalità tra madre e figlio. Quindi questo per dire che la riscoperta è avvenuta a partire da questo primo diario, che è “Un amore insolito” si chiama, cui feci una prefazione. Poi lì in un anno io mi sono immersa nella lettura dell’Aleramo, mi sono riletta tutto più volte, perché quello che mi interessava era il sogno d’amore, quello che è stato anche… che ha avuto anche una centralità nella mia vita. Questo sogno, questo ideale di fusione di nature diverse. E però il percorso che lei fa attraverso questa scrittura, che non è un’autobiografia, è un’autoanalisi, è una scrittura che svela continuamente, lei ritorna continuamente su di sé, svelando qualche cosa che prima non aveva visto, non aveva la coscienza. E questo percorso che va verso l’autonomia dell’essere femminile, lei lo chiama proprio come arrivare ad un’autonomia profonda, ad un vivere per sé, come sciogliere questo sogno che sei completa solo attraverso l’altro, che riguarda il figlio, riguarda l’amante, riguarda in generale il “due” della coppia come ideale, come ricomposizione ideale di quello che la storia ha diviso. Per dire che poi questa riflessione sull’Aleramo mi ha accompagnato per tutti gli anni Ottanta, anni in cui ho fatto anche una lunga analisi che mi ha permesso di… appunto, come dire, di vedere che cosa il femminismo aveva portato allo scoperto della mia vita, ma quanto residuo, quanti sedimenti profondi, quello che io chiamo la “memoria del corpo”. Io spesso del passato non ho ricordi, già il ricordo è qualcosa che tocca la coscienza. Nella memoria del corpo ci sono dei sedimenti, delle schegge del passato, quelle che probabilmente danno un’impronta più duratura, ma che non arrivano neanche ad essere dei ricordi. Nei miei libri la parola corpo c’è continuamente, se me la tolgono si dimezza tutto il mio lavoro, sparito. E però era come la terra cui io tendevo, il poter dire del corpo, dire l’indicibile, dire quello che si è sepolto nella memoria del corpo. Per me è stato sempre più un orizzonte, una meta, qualcosa cui… Quindi questa insistenza sulla parola “corpo”, che non viene mai specificata poi… Io dico poco dell’esperienza corporea. La parola sessualità moltissimo, ma dico poco della sessualità però la indico, l’ho sempre indicata, probabilmente come quel terreno dove sono sepolte gran parte delle mie… anche delle mie esperienze personali. E anche l’insistenza sulla scrittura di esperienza che non è l’autobiografia, ecco, questo io credo che sia legato proprio… perché nella scrittura di esperienza si lavora per frammenti, per schegge che vanno a pescare in profondità. L’autobiografia ricostruisce a tutto tondo, tende a ricostruire. Questo per dire quanto sono legate tutte queste vicende e quanto, indirettamente, la questione madre-figlio c’entra, ma c’entra dalla parte del figlio, sicuramente. Io non mi sono mai identificata nella figura della donna-madre. Anche quando ho trattato questo tema è sempre lo sguardo, quello che mi ha intrigato era lo sguardo del figlio, che è quello con cui io ho guardato a questo corpo materno così che è stato una presenza… Io dormivo in camera con i miei, per dirti fino a vent’anni. Quindi i loro corpi sono stati presentissimi e hanno segnato anche dolorosamente, forse, anche felicemente – non lo so – dolorosamente, felicemente… l’ultimo mio libro si chiama “Amore e violenza” e tutti mi hanno detto: “che titolo truculento!”. Io ho detto: “beh, forse”. Io ci ho ripensato: sì, era un titolo d’effetto, però per me sono state molto intrecciate, in queste notti in cui ho vissuto, in cui ho dormito, condiviso questa fisicità con la mia famiglia, lì erano legate. Non ho mai capito dove finiva l’uno e cominciava l’altra. C’è voluto il femminismo per ragionare su questo tema. Quanto dall’amore… perché dall’amore nasce tanta violenza? Oggi poi è un tema purtroppo su cui cominciamo finalmente a ragionare. Perché succede? Dall’amore. Non succede per amore, è vero, ma l’amore c’entra. Se è vero che è da lì che si sviluppa ogni volta questa… questo… Quindi insomma, non ho avuto figli ma ci ho ragionato attorno parecchio. »

LA VISIONE DEL MATERNO
« Non so perché, ho proprio una difesa molto forte rispetto al materno inteso come dedizione all’altro, come il sacrificio di sé per l’altro. Probabilmente è proprio questo bisogno di costruirsi come… di costruire il sé. Io penso che in questa dedizione ci sia tra l’altro… ci siano molti degli aspetti negativi, molti degli aspetti violenti, distruttivi della relazione uomo-donna. Questa dedizione femminile crea dei rapporti di dipendenza veramente carichi di una potenziale aggressività. No? Penso, l’ho scritto… nell’ultimo libro in particolare ho affrontato questo tema della dedizione materna, le donne che diventano poi madri dei loro… la dedizione e la cura non sono rivolte – come si pensa – ai bambini, ai malati, agli anziani, a uomini in perfetta salute. Cioè le donne curano, curano dal punto di vista fisico, psicologico eccetera uomini in perfetta… allora questo crea una infantilizz… no? fissa la relazione in una dimensione infantile, di dipendenza infantile. E nell’età adulta è difficile da superare, difficile da tollerare. Ecco quindi, io credo che la famiglia istituzionalizza l’infanzia. Quando è comparso il materno nel femminismo io sono stata molto critica. E il materno c’è sempre stato nella storia dell’emancipazione. »

MADRI E FIGLIE
« Direi di sì. Sì, quando c’è stato nel femminismo, è entrato nel femminismo che ho conosciuto io degli anni ’70, che non aveva… è stato il momento più critico rispetto al materno, il discorso della cura, del ruolo. È stato un femminismo proprio degli individui, delle persone. Come dicevo prima, noi abbiamo interrogato la relazione con la madre dal punto di vista di figlie. C’era il discorso anche del desiderio per il corpo della madre, l’omosessualità. Quindi è stato un momento rivelativo della relazione madre-figlia. Ripeto, dal punto di vista della figlia, non si interrogava la maternità. Forse avremmo dovuto farlo successivamente, avremmo dovuto analizzare la famiglia, la coppia. Invece poi, ecco, alla fine degli anni ‘70 una parte del femminismo, quello che poi ha avuto una posizione egemone in Italia per anni, il pensiero della differenza, la Libreria delle Donne, il pensiero di Luisa Muraro, lì ha instaurato invece, ha posto il problema su un piano simbolico, l’ordine simbolico della madre. Cioè lì non era più la maternità reale ad essere interrogata, ma era l’utilizzo che si poteva fare del simbolico, della madre come figura simbolica di autorevolezza, di differenza del femminile. E lì ho avuto proprio un dissenso profondissimo su quello, perché ho pensato che quello avrebbe cancellato tutto il percorso che stavamo facendo, difficile, degli anni ‘70. Difficile perché voleva dire scavare in profondità, voleva dire lavorare sull’inconscio, sulle formazioni inconsce, sull’immaginario che ti ha costruito in modo simile all’idea di femminile che è venuto dalla cultura maschile. E io ho avuto quindi un rifiuto ad essere per anche le generazioni più giovani, una figura di madre simbolica. Io sono un’amica, sono una persona, sono una donna con cui… e questo devo dire che ha stabilito effettivamente dei rapporti non di dipendenza. Sicuramente donne più giovani hanno letto i miei libri, hanno preso delle cose, ma non c’è relazione di madre-maestra, non c’è questa relazione. Io ho delle amiche, dico compagne proprio… ci siamo sempre dette “compagne di viaggio”, con donne di trenta, quarant’anni. Ne ho conosciute tante, abbiamo degli ottimi rapporti, ma non ho nessuna attitudine a prendermi cura di loro. Se trovano delle cose nel mio percorso, io do le mie passioni, le scrivo. Se trovano qualcosa che serve a loro mi va bene, io non le vado a cercare. Le ho incontrate, ci siamo incontrate, e ogni volta che le ho incontrate ho detto “vedetevi tra di voi”. Fate come abbiamo fatto noi. Vi mettete insieme, fate… le ho messe in contatto anche a livello nazionale, hanno fatto convegni. Siamo compagne di viaggio. Ho dei buonissimi rapporti, ma di tipo… appunto io non sento una gran differenza con loro nel momento in cui condividiamo dei progetti, proprio perché non mi sono mai posta il problema né della trasmissione, né del prendermi cura. No, non ce l’ho. »

L’EREDITA’ DEL FEMMINISMO
« Io penso che passa attraverso gli esempi di vita, passa attraverso le nostre pratiche, passa attraverso anche i nostri libri, le nostre scritture. Io penso che passi attraverso… Io lo penso proprio anche nel processo educativo. Io ho insegnato molto, per molti anni. Anche nel processo educativo ho sempre pensato più ai processi di identificazione che non di trasmissione. Tu hai un sapere che… tu trasmetti un sapere. In realtà ho sempre pensato che l’altro trovava nel tuo percorso di idee, di vita, trovava qualcosa, una scheggia, qualcosa che lavorava dentro di sé. Ho pensato anche con i ragazzi, io ho insegnato nelle scuole medie per tanti anni e ho insegnato agli adulti dei corsi 150 ore per altri dieci, quindici anni. E ogni volta io ho portato lì le mie passioni. Cioè, io potevo leggere un frammento di Freud o di Nietzsche, con i ragazzi come con gli adulti. Ho portato le mie passioni, i miei interessi, non mi sono mai… non ho mai pensato io ho un sapere che devono ereditare. Ho pensato che avevo delle passioni, culturali, intellettuali, di vita e che loro potevano trovar qualcosa. Li lascia molto più liberi. Io penso che l’autoritarismo che passa delle volte attraverso… l’autoritarismo queste forme dogmatiche, autoritarie della cultura, proprio l’idea che tu hai un sapere e devi indottrinarlo, per fortuna il femminismo che ho conosciuto io non aveva dottrine, era una pratica. Abbiamo sempre detto lo si trasmette praticandolo, cioè insieme, collettivamente, attraverso la narrazione delle vite, la riflessione sulle vite. E allora le vite… una ragazza, certo, che ha oggi trent’anni racconta di sé qualcosa di diverso da quello che posso raccontare io. Ma nel racconto noi possiamo trovare… anche perché poi ho la convinzione che alcuni elementi della relazione uomo-donna in particolare abbiano secoli alle spalle, è una costruzione di secoli, non la smantelli in una generazione o due. Quindi ci sono delle invarianti, delle permanenze profonde, le ritrovi. Ecco, ho letto – devo dire – un libro interessante, ne consiglio senz’altro la lettura, di Eleonora Cirant “Una su cinque non lo fa”, che è uscito da Franco Angeli, sul perché le giovani… Ha interrogato, diciamo attraverso conversazioni, interviste, una quindicina di donne tra i venti e i trentotto anni, l’età fertile per l’appunto, l’età in cui ci si interroga. Interessantissimo, per me è stato anche molto inquietante, perché queste ragazze non dicono: “non voglio figli”, dicono, la domanda che è ricorrente, quella che si coglie meno perché sembra sempre… il problema sembra sempre la precarietà, non hanno lavoro, non hanno soldi per una casa… invece la domanda che sta sotto, ricorrente, è: “con chi lo faccio? Vorrei un figlio, ma con chi lo faccio?”. Cioè il problema è la coppia, cioè il problema è che non ci sono più quegli ingredienti un po’ determinati da lunga storia di destini che formano la coppia. Allora lì c’è libertà maggiore, ovviamente, delle donne di dire no. E “con chi lo faccio?”. Il problema è la relazione uomo-donna, che è andata in crisi.
Sicuramente io sottovaluto sempre le questioni di contesto. Sicuramente il fatto che queste donne hanno difficilmente… cioè si è allontanato il momento dell’emancipazione nel senso di avere uno stipendio, avere un lavoro. Quindi restano in famiglia e restano adolescenti in parte anche a venti, trent’anni. C’è il fatto che il rapporto uomo-donna è messo in crisi da una consapevolezza maggiore. Nei ragazzi l’emancipazione, la maggior libertà delle donne, ha creato tra l’altro una fragilità e spesso una violenza da parte maschile. Gli uomini non hanno più dei riferimenti di corpi sociali che li confermino sul loro ruolo virile. Quindi è un momento delicatissimo, secondo me. Questi omicidi, quando uno di vent’anni uccide una fidanzata di diciotto perché lo ha lasciato dopo tre mesi, mi interrogo profondamente. Questa cosa dice che c’è una fragilità e c’è una difficoltà anche da parte maschile ad un impegno che capiscono che non è più quello del passato, non può essere quello del passato: io lavoro, tu stai in casa con il bambino. Sentono e lo capiscono e, forse, lo desiderano anche occuparsi di più dei bambini. Cioè sono saltati i confini tra privato e pubblico, sono saltati i destini, la fissità dei destini dei ruoli, quindi è tutto terremotato, alcune certezze terremotate. A questo punto la relazione di coppia è davvero difficile. Questi ragazzi dicono difficile anche decidere di convivere, non solo per questione di soldi. Ecco, quello che a me colpisce e mi inquieta di più è l’idea di dire: “ma il figlio poi, se lo desidero, alla fine verso i quaranta”, quando scatta – diciamo – l’ostacolo biologico, “allora lo posso fare o da sola o con qualcuno di passaggio diciamo, oppure con l’inseminazione artificiale”. Allora questo mi inquieta molto – dicevo – perché questo prospetta poi il riemergere della coppia originaria, madre-figlio. Io qui vedo davvero… cioè questo dà ragione un po’ delle mie riflessioni, cioè il fatto che è saltata prima la coppia uomo-donna, quella che resta ancora abbastanza solida, solida insomma, l’ultima sponda è la coppia madre-figlio. Son tante le donne che vivono oggi da sole con un figlio, investendo spesso sul figlio delle attese amorose che sono andate deluse con l’uomo. Questo è pericolosissimo secondo me. Quindi i problemi sono davvero seri, anche perché oggi vuol dire affrontare il problema della cura di un figlio, la vita familiare, eccetera, vuol dire affrontarlo pensando che la cura è una responsabilità collettiva, di uomini e donne, non è solo un destino femminile. Certo, ci sono uomini che già ragionano su questo, ma non sono tanti. Quindi è davvero difficile. Prima si faceva certo a vent’anni, anche senza pensarci molto. Pensarci molto è il frutto di una libertà maggiore, è il frutto anche di una responsabilità maggiore, è il frutto soprattutto del fatto che fare il figlio non è più un destino biologico segnato dalla tua capacità di farli, ma diventa una scelta. Allora questo punto però interroga uomo e donna, questo è un cambiamento davvero molto profondo e molto delicato in questa fase. »

CARLOFORTE
« Sì, Carloforte è un’altra data… è un’altra… come dire, data di nascita. Intanto ha le acque e ha il mare. Io avevo allora nel ’75… quando sono arrivata qui con questa vacanza femminista, prima vacanza femminista in Italia organizzata insieme con le donne, meravigliose amiche femministe di Cagliari… ecco, io avevo trentaquattro anni. Sono nata nel ’41. Quindi, e al mare son stata credo una volta o due con la mamma, da piccole, della serie Adriatico “non andar nell’acqua alta”, l’acqua al ginocchio ecco, quindi qui l’acqua per me – venivo dalla terra… Ecco devo dire vedere queste donne, cinquanta donne in acqua che cantano, che si tuffano dalle rocce… Io non ho potuto fare a meno di… dopo cento volte che mi sono affacciata dalle rocce, mi sono buttata. Poi maschera, pinne, è stata la scoperta… devo dire la prima impressione è la scoperta del mare, proprio la primissima impressione. Quindi una nascita, in una dimensione tra l’altro che mi è risultata familiare. La cosa strana è che non essendo, non avendo avuto io nessun… non sapevo nuotare, non ero mai stata nell’acqua alta…però ecco, io mi sono ritrovata come in un elemento naturale. Ho tentato poi, quando mi hanno dato la cittadinanza, dopo tanti anni che vengo qui e dovevo dire qualcosa, non è stato facile interrogarmi del perché, questo amore. L’acqua c’entra molto, queste acque trasparenti, limpide, questi fondali marini che io amo. Io starei con la maschera sempre, proprio guardare i fondali per me… io ho detto: “la sensazione che ho, l’impressione è di una ebetudine” che è un misto tra la beatitudine e l’inebetimento. C’è qualcosa nel guardare i fondali che mi rasserena l’animo. Non so, qualcosa come se lì vedessi delle tracce di una storia altra, profonda. Va beh, quindi è stata la scoperta del mare, di queste acque meravigliose, di queste scogliere e anche poi del paese. È un paese Carloforte, è un paese con delle tradizioni che immediatamente mi hanno conquistato. In particolare la tradizione delle serenate. Io amo cantare, quindi ho cantato serenate. Ho messo insieme tre generazioni di menestrelli carlofortini, quindi è stata una nascita in un paese ideale, di natura meravigliosa. Io qui ho… io dico sempre il mio sogno d’amore è riuscito. Se il sogno d’amore è la composizione armoniosa di nature diverse, qui per me corpo e mente si compongono meravigliosamente. Infatti c’ho tenuto molto anche negli anni, soprattutto da quando ho cominciato a star qui due mesi, a tenere insieme lo studio, la scrittura, il pensiero con i bagni, il sole, l’aria, la frequentazione del paese. È una composizione armoniosa. Ecco qui questa “singolitudine” ha trovato il suo luogo di felicità, dico sogno d’amore riuscito. Perché nessuno, dopo quarant’anni, tornando qui dice: “che meraviglia!”. Un amore che si rinnova ed è sempre una meraviglia in più. Questa casa poi, in modo particolare, la trovo particolarmente armoniosa, ecco, nel senso… i colori, gli odori, le forme. E qui poi questo elemento di singolarità, qui ha trovato – dicevo – la sua forma ideale. Perché qui, io che vivo sola a Milano da sempre, dal ‘60 quando sono arrivata a Milano, dal ‘66 ho sempre vissuto da sola, 40 metri quadri, casa e rivista, prima “L’erba voglio” dieci anni, poi la rivista “Lapis” dieci anni… Io le mie case sono 40 metri quadri, casa e rivista. Aggiungo, per fortuna, le riviste finiscono. Perché dovrei uscire io ad un certo punto. Qui invece è la casa dove io posso condividere una quotidianità con delle amiche, con delle persone amiche. E quindi io qui ritrovo quella felicità dell’essere. Io dico: “sono una solitaria socievole”. Qui è la mia socialità felice, con le amiche, da condividere per un periodo una quotidianità e poi, appunto, ci sono tanti ingredienti che fanno sì che questo per me sia un luogo ideale. »

BAMBINI IN GIRO PER CASA
« Eh sì, è vero, bambini… non ho mai gradito tanto che venissero delle amiche con bambini. Li guardo, non tanto li guardo perché io vado sugli scogli preferibilmente, poco in spiaggia. Però mi intrigano i bambini, forse mi intrigano anche troppo i bambini, probabilmente c’è una parte infantile… se mi lasciano sola con un bambino mi trovano distrutta, ecco, nel senso che io non ho la parte dell’adulto, non so fare la parte dell’adulto con un bambino. Però qui io ho sempre desiderato che ci fossero degli adulti, delle amiche con cui c’è appunto chi legge, chi scrive, chi guarda, è un elemento che ha molto a che fare con questo tratto di… »

MAMME E PANNOLINI
« Mi ci son trovata pochissimo. Non ho ricordi. Evidentemente ho evitato al massimo, sì certo, sì, mi deprime. Non so dove, in una conferenza, ho sentito parlare anche di siti. Immagino che ci siano e anche numerosi, di donne che si scambiano consigli. Ecco, in treno, con molto fastidio e con fatica mi sono trattenuta. Soprattutto quando sento più che di pappe, quando sento la presa sul figlio, quando mi rendo conto appunto, come dicevo prima, che sono rapporti in cui passa… veramente inconsapevolmente passano dei desideri, pulsioni, fantasie, il figlio come partner. Io temo molto questa figura della madre-amante. È estremamente intrigante per un figlio. Io credo che il carico che si porta dietro un figlio da parte materna può essere distruttivo perché c’è dentro – come dire – il “tutta la mia vita per te”. Portarsi dietro un’aspettativa di vita che l’altro non ha vissuto e che vuol vivere attraverso di te, si porta dietro un amore della serie: “tu non mi abbandonerai perché comunque sei mio figlio”, quindi l’essere madre per sempre. La maternità in realtà – io lo dico brutalmente ormai in tutti gli incontri pubblici e vedo un sussulto in chi mi ascolta – in senso stretto la maternità è solo i nove mesi della gravidanza. Dopo un bambino lo può allevare chiunque: un adulto, uomo, donna, madre o padre biologico. In realtà quest’idea della maternità a vita, carne della mia carne, questo io credo che sia una delle componenti del rapporto uomo-donna più difficile da affrontare e da sciogliere. Non è un caso che il femminismo ha due punti nodali, oscure zone di esperienza che sono rimaste oscure e non indagate a sufficienza, che è il sogno d’amore, l’innamoramento, l’ideale della fusione dei due in uno e la maternità, i sentimenti profondi che legano la madre a un figlio. Non è un caso – ripeto – perché sono strettamente legate le due cose: il sogno d’amore si può pensare che abbia un’origine nella fase iniziale dell’origine della vita di ogni umano, cioè questa “fusionalità”, questa indistinzione madre-figlio, questo essere tutt’uno con l’altro. Il sogno d’amore è anche sogno di ricomposizione, di ritorno, ma è anche angoscia ed inglobamento di ritorno e perdita. E, come diceva l’Aleramo, è sacrilegio, un atto sacrilego dal punto di vista dell’individualità: l’idea del tutt’uno, della fusione con l’altro. Quindi sono le due esperienze che son rimaste più in ombra. La parola amore poi, nel femminismo – ti assicuro – dopo quarant’anni non l’ho mai sentita. Quasi mai. È rimasta un impronunciabile. Anche nei dibattiti sulla violenza come si fa a non nominare l’amore, visto che chi uccide sono padri, mariti, figli, amanti, fidanzati. Non viene pronunciato. È perché quando si entra nel discorso dell’amore, della maternità entri in una zona dove la divisione netta del maschile-femminile vacilla, dove non puoi più dire: è l’altro il dominatore. Nella figura della madre-amante c’è un tratto di potenza, c’è un tratto di potere, di potenza, perché l’altro la dipendenza la crea: comunque sei indispensabile. L’essere indispensabile agli altri è una forma di potere, anzi – forse – è quello che ha conseguenze anche più drammatiche. E in questo l’Aleramo è stata per me un grande… per schegge, perché io credo che se l’avessi incontrata personalmente non l’avrei sopportata. E anche tutta la sua opera è così, anche quel linguaggio un po’ ottocentesco. Presa a frammenti… Io ho estrapolato dei frammenti, sono frammenti… come lei dice, infatti, alla fine molto interessante, perché dopo che avevo lavorato dieci anni su tutti i suoi diari e così, ho trovato una frase che mi era sfuggita, dove lei dice: “non mi interessa che uno raccolga tutta la ridda di scritture, ma che vengano salvati dei frammenti di lucida intuizione”, che è esattamente quello che avevo fatto. “Frammenti di lucida intuizione”, cioè momenti in cui lei… e uno di questi dice proprio: “ho capito cos’è stato l’amore per me, rendermi indispensabile all’altro”, questo bisogno continuo. È questo la tirannia, un potere tirannico, perché non dà vantaggi alla donna, tiene solo… bloccato, tiene l’altro aggrappato a sé. Ripeto, questa è una vicenda su cui il femminismo stenta ad entrare perché non ha più la linearità del conflitto politico, lì entri in una zona molto più complessa. »

ARGOMENTO TACIUTO
« No. Dunque intanto io credo – a mia memoria, di quello che ricordo – non mi pare… di ricerche, studi, interrogativi su questo non ne ho visti finché, appunto, non ho incontrato Paola Leonardi. Ecco, no… sbaglio. Io ho diretto per dieci anni la rivista “Lapis. Percorsi della riflessione femminile”: una delle rubriche si chiamava “racconti di nascita”. In realtà erano racconti di gravidanza e di parto. E abbiamo interpellato molte donne, perché raccontassero della loro maternità, maternità proprio, anche come gravidanza e parto. E lì non è stato difficile, anche lì con qualche… all’inizio, non così… non era un tema… Perché anche sul parto poi cala un’ombra, cala un momento… insomma è come se il dolore del parto non venisse raccontato, almeno dalle donne della mia generazione veniva poco raccontato. Era più la felicità, poi, del figlio. Le ragazze più giovani – ho notato invece in molti incontri che ho avuto sulle scritture di esperienza – le ragazze giovani invece descrivono con una durezza estrema proprio la fase, la dolorosità fisica del parto, la lacerazione fisica. Alcune poi sulla questione dell’epidurale hanno scritto, hanno fatto anche dei siti, hanno scritto… Quindi diciamo che se c’è un cambiamento generazionale è che c’è meno retorica e una percezione, una narrazione molto più puntuale, anche dell’aspetto fisico del parto. Dicevo c’era questa rubrica “racconti di nascita”, racconti del corpo e a un certo punto noi della redazione, quasi tutte allora erano senza figli, poi qualcuna a quaranta l’ha fatto il figlio, però eravamo senza figli. E dovremmo anche dire perché noi non li abbiamo fatti. È stata una discussione allucinante, cioè venivano fuori delle fantasie, fantasie… anche mostruosità, di qualcosa di perverso… cioè c’era nel fondo, evidentemente, dietro al non aver fatto figli, evidentemente c’era qualcosa di anomalo che veniva visto, delle anomalie. C’era qualcosa di torbido, di oscuro, nella fisicità, legato al corpo, legato all’immaginario dei genitori. Quindi abbiamo capito che era un terreno minato in quel momento, che era difficile da portare allo scoperto, perché era carico di fantasmi. Quindi abbiamo rinunciato. »

ESSERE LUNÀDIGA
« È un argomento tabù, anzi tanto che quando… io mi sono complimentata molto con Paola Leonardi e Vigliani per aver fatto questa scelta, la scelta era limitata a donne “speciali”, come le chiamavano loro, cioè donne che hanno avuto delle forti passioni, culturali, intellettuali, politiche, tanto da aver avuto questo desiderio. E poi soprattutto mi piace perché l’hanno fatto come fosse un’autocoscienza collettiva, più che interviste. Era veramente un modo di raccontarsi insieme. Un bel modo di riprendere la pratica dell’autocoscienza tramite la scrittura, tramite l’intervista. Quando siamo andate a presentarlo abbiamo avuto problemi, cioè nel senso che si accendeva immediatamente un conflitto con quelle che hanno avuto figli. Non è stato facile discuterne insieme. Io trovo ancora oggi è difficile entrarci, c’è uno spartiacque abbastanza netto, non è così vero del tutto che oggi poi, sono tutte libere, “li facciamo, non li facciamo”: non è ancora così vero, il problema del farli o non farli, anche nell’opinione sociale. C’è ancora un’attenzione alla donna che non ha una relazione, c’è ancora… non è così come sembra, tutto libero. E soprattutto – dicevo – il conflitto nasce soprattutto all’interno del femminismo, nasce all’interno della problematica femminista, nel senso che le donne che hanno avuto figli… insomma… c’è un conflitto, evidentemente l’altra o viene idealizzata da quella che non li ha avuti, l’altra pare per un verso più libera, per un altro verso però sembra che manchi, c’è l’idea della mancanza dell’esperienza più profonda, non è pacifico, non è una questione affatto pacifica. E quindi io credo che sia importante continuare a indagare questo.
Ripeto, in queste donne… l’interrogativo che si è posta Eleonora Cirant, “Una su cinque non lo fa”, proprio perché interroga una generazione diversa dalla nostra, credo che sia molto interessante. Le quindici, venti, non so più quante donne con cui ha conversato, che ha raccolto nel suo libro, sono molto interessanti perché danno l’idea di cos’è oggi questo problema, dove grava meno la colpevolizzazione, il senso che si aspetta da te, come fosse un destino. Questo c’è molto meno in loro, si sentono più libere. Però proprio nella libertà di scelta comincia l’ondeggiamento: “come lo faccio, non lo faccio, lo faccio a quaranta, a trenta, con chi, la relazione è stabile, non è stabile, quello di passaggio, l’inseminazione artificiale”. Quindi è lì, è proprio nel momento in cui interviene la scelta. Per noi – diciamo la verità – per le donne della mia età non c’è stata scelta: chi l’ha fatto a venti anni e chi non l’ha fatto per niente, io dico: c’è un margine di scelta minimo, una ha obbedito quasi naturalmente a una storia femminile e per me invece c’è stato un imprinting, un’impronta d’origine che mi vedeva come figlia e che tale mi ha chiesto. A me non hanno mai chiesto i miei genitori di fare un figlio. Neanche di sposarmi. Beh sì, me l’hanno chiesto allora, mi hanno quasi obbligato. Ma dopo era chiaro che per loro era più importante che fossi la loro figlia. Spesso tornavo al paese con tutte le amiche femministe, grandi feste, erano molto contenti che avessi tante amiche, che restassi la loro figlia con tante amiche. E quindi io trovo che anche per loro, tutto sommato, se avessi avuto un figlio sarebbe stato un problema. Io ero a Milano, loro avrebbero… Insomma, loro hanno ripreso la loro vita, a ballare, si son fatti la loro vita. E questo mi fa piacere, averli rincontrati. »

SGUARDI
« Ho sentito spesso degli sguardi affettuosamente invidiosi, nel senso: “beata te che puoi pensare a tempo pieno, che puoi scrivere, che puoi scegliere, fare una vacanza”. Sì, qualcosa del mio tempo, questo mio tempo dedicato quasi totalmente per quaranta anni all’impegno femminista, che è una passione personale e politica. Ecco, ci sono i miei studi, ma ci sono anche le relazioni con le altre donne, sono le iniziative, quindi la mia vita è andata… il mio privato-pubblico insomma è andato un po’ insieme. E quindi semmai c’è… io ho sentito più che l’ombra, più che l’ombra ho sentito più invece l’idea che lì forse questa mia esperienza di pienezza nella solitudine, dico pienezza non nel senso che non sia doloroso, ovviamente, farsi la vita da soli, adesso non esageriamo nell’idealizzazione: c’è una dolorosità anche nella difficoltà dei rapporti di coppia, ci sono delle difficoltà nel vivere la propria vita, nel fastidioso obbligo di vivere per sé…. però c’è anche una felicità di intrattenimento tra sé e sé che credo che si veda: uno pensa pochissime relazioni sentimentali, non ha figli, non ha famiglia, pensa sempre: una triste, depressa…. No. Io no, non lo sono. E quindi, in questo ecco sorprende che io non sia quella del ramo secco. Non mi piace l’idea della fertilità. Anche se – ripeto – mi piace veder nascere le piante, mi piace la fertilità della natura. Applicata alle donne la sento molto violenta, l’idea della fertilità. Però sicuramente ecco il fatto di non essere in coppia, di questa cosa, la “singolitudine”… però la vedono piena di vita, piena di relazioni, amicizie, progettualità, vitalità e quindi – forse – questo dà un’idea, anche una speranza, la speranza che è possibile non vincolarsi necessariamente né al figlio, né al marito, né alla famiglia. »

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