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Franca Elisa racconta la sua vita dall’infanzia e adolescenza trascorse nella Sicilia degli anni Ottanta, in un contesto familiare e sociale dove le emozioni, la morte, il sesso sono tabù, fino alla maturazione personale a Roma, a partire dagli anni universitari, con il raggiungimento del suo più grande traguardo: avere una casa tutta per sé.

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Ecco la trascrizione completa del video:

« Sono siciliana, vivo a Roma da più della metà della mia vita ma continuo ad essere siciliana. Chi sono… è la domanda più difficile del mondo: sono una persona che cerca di essere felice tutti i giorni, che cerca di conoscersi sempre di più; con tantissime paure, con tantissime ansie e l’unico modo che ho è quello di fare… il fare mi allontana dalle paure.
Io sono cresciuta in una cultura in cui l’essere madre era l’unico obiettivo, l’obiettivo superiore, anche prima dell’essere moglie, anche prima di essere sposati. Io ho sempre scherzato con i miei genitori sul fatto che sono nata nove mesi e due giorni dopo il loro matrimonio perché in realtà lo scopo finale era quello, non l’amore, non il condividere la vita con un’altra persona scelta, amata, con cui avere degli interessi ma… avere dei figli. E mi sarebbe tanto piaciuto avere una madre che invece non avesse rinunciato ai suoi progetti, a studiare, a continuare a lavorare – anche perché ero affascinata da piccola dal suo lavoro, dal creare da un pezzo di carta dei tailleur bellissimi. Ma anche quello che era per lei una gioia è diventato un obbligo, un obbligo perché crescere tre figli con un solo stipendio negli anni Settanta l’ha obbligata a lavorare per noi, per i nostri vestitini, per risparmiare facendoli in casa. Quindi vedevo in lei semplicemente la madre: la madre affaticata, la madre nervosa che non ce la faceva e quindi il suo essere madre non è stata una scelta totale. E’ stato un obbligo, una fatica.
L’aver avuto poi due fratelli a distanza di pochissimi anni mi ha fatto da subito non essere figlia, ma l’aiutante-madre. L’aiutante-madre che non doveva fare capricci, che non doveva piangere, che doveva accudire i fratelli più piccoli perché mamma non ce la faceva. In tutto ciò crescendo non so se ho mai avuto il desiderio, la voglia o… l’istinto materno di cui tanto si sente parlare.

Ho dedicato la mia vita più che altro alla crescita di me stessa, a comprendermi, a capirmi. Non è mai stato il mio primo obiettivo il diventare madre e forse quando è arrivato il momento non era più possibile. Non ci sono mai state delle storie così importanti, magari non le ho volute io, che mi facessero pensare totalmente all’essere madre: volevo essere Elisa. In passato ho pensato più volte di essere incapace, quindi la paura di dover prendermi cura in maniera totale e assoluta di un altro essere umano mi spaventava, proprio perché c’ero io come essere umano a cui pensare.
A cinque anni mi sono ritrovata da sola nella mia stanzetta a pensare: “devo prendermi cura di me”, perché non c’era nessun altro che poteva farlo. Non c’era una nonna amorevole, non c’era un padre perché lavorava dodici ore al giorno sette giorni la settimana; c’era una madre depressa, depressa perché il post-parto gli aveva procurato una depressione; un fratello di un anno che non si staccava da mamma e un fratello appena nato che piangeva tutte le notti – con stanchezza e crisi isteriche da parte di mia madre – e io ho deciso – non so quanto consapevolmente perché a cinque anni non è che ti dici “ok, mi prendo cura di me” ma quello è stato. Quella è stata la mia decisione. Una decisione che sicuramente non ha portato bene perché nella vita non ci si può prendere… non si può fare tutto da soli, non è possibile non chiedere aiuto, non avere qualcuno accanto di cui fidarsi, ma così ho fatto per tantissimi anni. E ad oggi alla domanda secca se ho rimpianti? No. No: ho lavorato tanto per essere serena e va bene così.

Ovviamente per una famiglia in cui lo scopo era avere una famiglia, avere dei figli più che una famiglia – perché mia madre si è definita madre, moglie forse negli ultimi anni da quando siamo cresciuti, siamo partiti, siamo andati via è diventata più moglie che madre. “Capirai quando sarai madre”, “non puoi capire perché non sei madre”, “tu finché non sarai madre non mi capirai, non avremo un punto di vista comune” è stato il pane quotidiano. Non è mai stata… non mi ha mai detto in maniera diretta: “perché non ti trovi un uomo, perché non ti sposi, perché non fai una famiglia?”, ho visto semplicemente lo sguardo… sono stata accompagnata dai silenzi e dagli sguardi dell’essere un’aliena, diversa da tutte le altre. Qualche anno fa tornando in Sicilia, un’amica di mamma ci incontra e le chiede: “ma lei è sposata?” e – sono stata molto felice – mamma ha risposto: “no, ma lei è serena”. Da lì sono cadute tante barriere, tante incomprensioni. L’essere vista in quel momento… avevo raggiunto lo scopo di essere vista, ero serena. Quindi? Perché avrei dovuto essere uguale a tutte le altre se ho la serenità?

Il mio nome, doppio nome: Franca Elisa. In realtà io per mamma sarei dovuta essere Elisa e basta. L’aggiunta di Franca è dovuta al fatto che nonna paterna si chiamava Francesca e c’erano altre due cugine prima di me che si chiamavano anche loro Francesca quindi era quasi un obbligo che io lo portassi, Franca o Francesca, – ma Elisa ha una storia. Mia madre lavorava durante l’adolescenza in una sartoria. Racconta dei suoi anni di lavoro come una favola, come un film anni Cinquanta, anni Sessanta. Lei avrebbe voluto studiare ma negli anni Cinquanta una donna in Sicilia perché dovrebbe studiare? Non c’è nessun motivo, quindi finita la terza media – era andata ben oltre i suoi studi – doveva stare a casa ad aiutare la madre, ad aiutare i fratelli e lei non ce la faceva, voleva uscire, voleva vedere il mondo, voleva fare cose e si inventò che una signora venuta da Milano in vacanza in Sicilia si era talmente innamorata del posto che aveva deciso di aprire un negozio di abbigliamento con annessa sartoria e cercava ragazze che lavorassero lì e lei quindi felicissima andò a lavorare in questo posto. La figlia di questa signora era sposata con un uomo, un ingegnere che lavorava all’ambasciata argentina – io non so quanto sia favola questa storia o quanto sia vera – comunque questa signora Elisa che tornava in transatlantico dall’Argentina all’Italia, veniva a trovare la madre e raccontava di questi viaggi appunto in transatlantico, delle feste in ambasciata, dei suoi abiti da sera, le foto… e lei diceva: “voglio avere una figlia che avrà tutto questo” . E quindi il nome Elisa deriva da quello.
Mia madre è sempre e comunque una persona ansiosa e comunque questa donna che lei sognava era comunque accompagnata da un uomo potente, un ingegnere. Lei avrebbe voluto che io avessi avuto tutte queste cose ma mi doveva proteggere qualcuno, mi doveva proteggere un uomo: è un uomo che doveva darmi gli abiti da sera, i gioielli, i viaggi, le feste. E’ sempre stata spaventata – alcune volte ho pensato anche un po’ invidiosa della mia totale libertà e incoscienza, ma soprattutto spaventata. L’ansia è stata una grande compagna, un’ansia che mi ha trasmesso anche lei. Il partire a diciannove anni e venire in una grande città totalmente da sola, cominciare da zero, cioè non sapevo neppure fare un uovo, non sapevo che cosa fosse una bolletta della luce e ogni mia scelta, ogni mio racconto era accompagnato da un suo attacco di ansia. L’ho sempre vista spaccata a metà da una parte traspariva l’orgoglio che io comunque fossi sola e riuscissi comunque a farle le cose, e dall’altra la paura del “chi si prende cura di lei?”. Di mia madre mi sono presa cura io poi: mi sono presa cura io quando mettevo la testa sotto il cuscino a cinque anni perché avevo paura dell’uomo nero e non volevo che mi sentisse piangere perché lei non poteva, non aveva tempo di coccolare me; mi sono presa cura io di lei quando ho imparato a leggere le favole perché nessuno aveva tempo di leggermi le favole. C’è un aneddoto: mio fratello, il piccolo di casa, una volta scappò dall’asilo. Aveva quattro anni. L’asilo non era tanto lontano da casa ma neppure così vicino perché un bambino di quattro anni tranquillamente dall’asilo tornasse a casa. E siccome lui era il piccolo doveva fare tutto quello che facevano gli altri. Il fratello più grande era già passato alle elementari, lui non voleva stare all’asilo e scappò dall’asilo lasciando cappotto, cartella tutto quanto. Tornò a casa perché non aveva più voglia di stare all’asilo e si nascose dietro delle piante in giardino, aspettando l’ora per farsi vedere perché mamma non lo doveva sapere e io l’ho trovato lì – avrò avuto set… nove anni? sì… nove anni se lui ne aveva quattro… sì, avevo nove anni – e lui mi disse: “sssss, non lo dire alla mamma che la mamma poi si spaventa”. Io a nove anni ho trovato la maturità di dirgli: “ok, ma anche se la mamma si spaventa non puoi stare al freddo a dicembre e buttato in giardino senza cappotto! Ci parlo io con mamma per tranquillizzarla”. E quando mia madre se l’è visto davanti… attacchi di panico: “da solo, hai attraversato le strade per venire a casa!”. E comunque anche adesso, dopo tantissimi anni, quando ci sono delle crisi di un certo tipo in famiglia, vengo convocata io. Io non ho mai convocato nessuno quando ci sono state crisi nella mia vita.

Nell’ambito del lavoro sicuramente essere una donna senza figli ti fa vedere come una senza problemi, senza impegni importanti, quindi la tua disponibilità è quasi totale, può essere totale: comunque non devi correre ad accompagnare il bambino all’asilo o a scuola o ritornare a casa per prenderlo, preparare le pappe, non fai le dieci di sera a cercare di addormentarlo… tu sei libera e spesso e volentieri la tua stanchezza in ambito di lavoro non è vista nella stessa maniera, i tuoi impegni puoi anche farli in altri momenti, no? L’essere madre fa sì che ti consideri con un certo privilegio. Tu devi avere dei privilegi perché devi pensare ai tuoi figli. L’essere madre ti dà quel diritto di dire qualcosa in più rispetto a chi non è madre.

Sono andata via di casa a diciannove anni e mi sono sentita sradicata, senza un posto dove stare, camere in affitto condivise durante l’Università, appartamenti che non erano i miei in cui anche appendere un quadro era chiedere un lusso e soprattutto avevo bisogno di un posto che fosse totalmente mio. La mia casa di origine non era la mia casa, era la casa dei miei dove anche la mia stanza non era mia. La mia stanza era gestita da mamma, era lei che decideva i soprammobili da mettere, il copriletto, il colore della parete. Era il mio desiderio più grande avere una casa mia e per tanti anni ho pensato che sarebbe stato impossibile, impossibile da un punto di vista economico, il lavoro… i lavori precari, l’impossibilità di avere un mutuo. E l’ho sempre pensato come un desiderio, una cosa così lontana, impossibile da avere e ne parlavo come di un desiderio. E durante i mesi di lockdown, chiusa da sola in compagnia di una gatta, mi sono detta: “è l’unica cosa che dipende da me… cambiare il mondo, avere l’uomo della mia vita, essere amata follemente non dipende da me, questo posso farlo”. E la prima cosa che ho fatto appena ci hanno liberato dal lockdown stretto è stata andare all’agenzia immobiliare e dire: “io ho questo, ho bisogno di questo” e da lì abbiamo iniziato tutta la trafila burocratica. E il giorno in cui mi è stato detto: “ok, è stato accettato il mutuo” è stato il giorno più felice del mondo. E anche qui ho trovato una famiglia che mi è stata accanto.
Durante l’adolescenza i rapporti con la mia famiglia sono stati terribili, sono stati veramente tragici: incomprensioni, silenzi, litigate. Io sono cresciuta in una Sicilia negli anni Ottanta dove sono stata la prima la prima a dire mi metto i jeans strappati e mi faccio i capelli viola, voglio andare al cinema, voglio andare ai concerti, passo la notte fuori con le amiche davanti a un falò. Una ragazza di oggi se mi sentisse dire una cosa del genere direbbe: “beh… quindi ?!”. Per me è stata una rivoluzione: prendere un treno per andare a Palermo, sei ore di treno per andare a vedere un concerto… nessuna delle mie cugine l’aveva mai fatto, era una cosa assurda. E quindi è stato un lavoro per tutta la vita avere qualcuno che mi appoggiasse nelle scelte e la casa simboleggia anche quello: l’aver fatto una scelta condivisa con le persone che mi amano. Quando ho deciso di comprarla ne ho parlato con mio fratello, dicendogli: “almeno una casa, una cosa mia, un luogo mio dove ritornare lo voglio”. E mio fratello mi ha detto: “ma noi ce l’abbiamo una casa” – è la casa della mia famiglia. In questo momento ho cambiato prospettiva, punto di vista anche su quella: è un luogo sicuro in cui ritornare, ok … ma non è la mia.

Il rapporto con il mio corpo è stato drammatico perché a parte che sono sempre stata una bambina alta, sono sempre stata alta rispetto alla media e ad un certo punto intorno ai dieci undici anni sono esplosa, è arrivato il ciclo. Da che ero una bambina che andava in giro in topless al mare mi sono ritrovata la quinta – nella mia famiglia abbiamo preso tutti da nonna – e mi ritrovo con una madre incapace di gestire la situazione. Un pomeriggio mentre prendevano il caffè con le zie, quindi le quattro sorelle che ovviamente dovevano gestire la situazione, le dicono: “forse è arrivato il momento di andare a comprare un reggiseno”. E mia madre diceva: “ma no, è ancora troppo piccola, che se ne fa di un reggiseno?”, le mie zie ridendo ovviamente le fanno notare: “ma ha la quinta… sarà piccola ma comunque forse è il caso di comprarle un reggiseno”. Comunque ricordo i momenti in cui alle scuole medie forse l’unico che se rendeva conto era il professore di matematica che un giorno convocò mia madre e le disse: “lei è una donna, ha il corpo di una donna, è una ragazzina di undici anni alta un metro e settanta con dei compagni di classe che sono poco più che bambini e la guardano e lei sta molto in imbarazzo”. Anche lì c’è stato il silenzio. L’unico conforto di mia madre era il racconto, il racconto che qualcunaltro l’aveva avvertita… ma non ero io da proteggere. Il fatto che lei fosse stata avvertita era sufficiente perché lei era una buona madre perché era consapevole di quello che mi stava succedendo ma io ero lasciata da sola, da sola a gestirmi questo corpo di cui mi vergognavo da morire perché ero incapace di gestirmi un corpo da donna con un cervello da bambina.

Parlare di sesso a casa mia era una cosa talmente sconosciuta, cioè il sesso non era piacere, non era un argomento di cui parlare, non c’era un’idea di educazione sessuale. Assolutamente… e una cugina rimane incinta a diciassette anni, lei felicissima di questo – a differenza mia, lei è la madre da manuale, lei è la madre perfetta. Per lei non è stato un errore rimanere incinta a diciassette anni era quello che voleva. Lei è la mamma che legge le favole, che prepara le torte, che accompagna i figli a scuola, che li segue nello studio. Lei è nata per essere madre. Mi ricordo che mi è stata comunicata la cosa da mamma durante una vacanza al mio rientro da Roma. Me lo ha raccontato piagnucolando come se fosse successa la cosa più terribile del mondo, una tragedia, una tragedia immane. E io ho risposto in maniera estremamente razionale che capivo che rimanere incinta a diciassette anni non era una cosa fighissima e l’ho rimproverata per l’assenza di parola sull’argomento, per non averci… per non avermi mai parlato di come gestire i rapporti sessuali, di come approcciarmi al sesso e lei mi ha risposto: “io ti ho sempre detto come fare, io ti ho sempre detto di stare attenta”. Io le ho detto: “mamma sì, ma in che modo dovrei stare attenta?”
“Non si fa sesso! È così semplice!”

Il periodo più brutto della mia vita è stato tra i quindici e i diciassette anni. Io avevo un cugino di tre anni più di me, un bambino di tre anni più di me è stato per me la figura paterna-materna, l’unica figura paterna che ho avuto. É assurdo da dire: lui era quello che mi proteggeva, che mi faceva vincere nei giochi, che mi diceva che ero intelligente, che mi proteggeva. Quando avevo quattordici anni abbiamo avuto il primo lutto importante in famiglia: uno zio di poco più di trent’anni si è ammalato – non si è mai capito se fosse un virus che aveva preso in Africa, zio lavorava sulle piattaforme petrolifere nell’Africa del nord o se… erano gli anni in cui si cominciava a parlare di AIDS, hanno fatto tutti i controlli del caso ma non si è mai capito. La mattina del 14 febbraio tornando da scuola non trovo nessuno a casa, uno zio mi venne a prelevare dicendo: “mamma ha da fare”. Non si parlava di malattie, le malattie erano un tabù. Non si dovevano mostrare i sentimenti, non si doveva mostrare il dolore, non si doveva consolare. Forse il verbo “dovere” è sbagliato. Non era nella cultura, non c’era l’abitudine, un grandissimo pudore. Io quel giorno ero tornata anche piuttosto allegra da scuola. Era una giornata… era il giorno di San Valentino, avevamo scherzato, giocato e io sono stata prelevata e portata a casa di una zia la quale mi aveva totalmente messa a mio agio: “mangia, gioca, studia, i compiti da fare, non pensare nulla, non è successo niente”. E ho scoperto tutto – le cose non mi suonavano tanto bene… ho scoperto che zio era morto origliando una telefonata… origliando una telefonata. E quando mio padre è venuto a prendermi la sera gli ho detto: “perché me lo avete tenuto nascosto!? Perché non me lo avete detto?” e lui, sempre nell’incapacità, l’incapacità di mostrare sentimenti o l’incapacità di… abbracciarmi, di consolarmi in un momento di dolore mi rispose: “non c’è… che cosa avrei dovuto dire”?
L’unico che mi è stato vicino in quel momento è stato un ragazzino di diciassette anni. E’ stato l’unico ad abbracciarmi, l’unico a dirmi: “se hai bisogno sto con te questa notte”. Poco più… a novembre successivo mio cugino si è ammalato, si è ammalato di tumore. Non gli hanno dato più speranze, nel momento in cui hanno scoperto che cosa aveva, gli avevano detto che sarebbe vissuto forse altri due o tre mesi. Il Natale più brutto della mia vita. Anche lì… anche lì ho intuito, ho capito, ho origliato, nessuno mi ha informato, nessuno mi ha detto nulla. Ma neppure a lui dicevano nulla. Lui sapeva che stava male, sapeva che andava da un ospedale all’altro ma non sapeva nulla. Un giorno mi ha chiuso dentro una stanza, mi ha chiuso a chiave dicendomi: “almeno tu, almeno tu devi dirmi la verità”. Che ne sapevo io della verità! Ero stupida e piccola, avevo quindici anni. Avevo quindici anni, cosa mi dovevano dire, cosa dovevo sapere io? E ci siamo abbracciati, siamo stati a piangere. Siamo stati a piangere per un’oretta senza sapere che cosa dire. Sono passati nove mesi perché era agosto, è morto ad agosto, e in quei nove mesi lui è cambiato. Non era più il mio eroe, non era più il mio fratellone maggiore, non era quello che mi proteggeva. E’ diventato cattivo, è diventato cattivo, arrabbiato, arrabbiato col fatto che io fossi libera di andare in giro a giocare, a scherzare e divertirmi con gli amici. Io ero scappata, non riuscivo a reggere tutto il dolore e la rabbia che lui aveva, tutto il dolore che c’era in quel momento. Facevo l’adolescente: uscivo con le amiche, andavo ai concerti. Una mattina di agosto sono stata buttata giù dal letto con una certa violenza da mia madre che, arrabbiata, mi diceva: “stai ancora a dormire… alzati!” e mi ha trascinata in ospedale – io non avevo più voluto vedere mio cugino da qualche mese anche perché non era neppure possibile vederlo – e sono riuscita a vederlo per salutarlo qualche giorno prima che morisse. Era un ragazzo bellissimo, ma veramente bello ed era irriconoscibile in quel letto d’ospedale. In quel momento è iniziata la rabbia, la rabbia che mi sono portata dietro per tutta la vita. E una frase di mia madre mi colpì tantissimo: ogni volta che io facevo qualcosa di sbagliato, che tornavo a casa ubriaca, facevo tardi, facevo qualcosa che non andava bene… lei un giorno mi disse: “prima di morire Salvo mi ha detto: zia prenditi cura di Elisa”. Un ragazzino di diciannove anni che stava morendo ha dovuto dire a mia madre di prendersi cura di me perché lui non lo avrebbe più potuto fare.
Mi fa rabbia il fatto che non si possa fare nulla. Non mi spaventa la mia morte. Non è la mia che mi spaventa.
Nel giro di un anno e mezzo ho perso due persone molto amate, molto molto amate e ho visto un dolore nelle persone che sono rimaste… muto. Le mie zie, una aveva perso l’amore della sua vita con due ragazzine di sette e due anni da crescere. Da sola, mia zia non lavorava, aveva perso l’amore della sua vita, l’uomo che aveva scelto e che ha sposato scappando di casa contro il volere di nonno; che la trattava come una principessa, non aveva mai lavorato, era sempre stato lui accanto a lei. Lei si è rimboccata le maniche, ha tirato su due donne meravigliose. Dicevamo, scherzando, sembrano quasi il film “Speriamo che sia femmina”: tre donne da sole che si sono appoggiate l’una con l’altra ma un dolore immenso… la perdita dell’uomo amato, mia cugina che aveva perso il padre che per lei era l’eroe assoluto, l’altra che neppure se lo ricordava perché aveva due anni quando è morto ed ha passato gli ultimi due anni in ospedale. Un’altra zia che ha perso un figlio e che per anni non è uscita di casa. La morte la vedo… con rabbia, con rabbia. »

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