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Elettra racconta il suo percorso di vita segnato da un impegno politico che ha vissuto con un senso materno e di cura verso la sua comunità; da una isterectomia che le ha permesso di sviluppare una sua propria concezione dello stare al mondo e da una storia familiare che cerca di tramandare con passione.

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Ecco la trascrizione completa del video:

« Io non ho figli.
In una certa stagione della mia vita questo è stato un problema. Intorno ai 40 anni sentivo che il figlio era un modo di completare un’identità di donna che mi era stata trasmessa; più o meno in quel periodo sono sorti anche problemi legati al mio utero fibromatoso, un elemento in più che mi ha portato a riflettere e a vivere la condizione di non espletare completamente la funzione per cui ci dicono essere state costruite, pensate e create; è stato un passaggio cruciale che mi ha portato a capire che l’Elettra aveva una sua identità, una sua capacità di stare al mondo e di essere nel mondo e per il mondo indipendentemente dal suo utero e dal prodotto del suo utero.
In particolare ricordo con molta chiarezza – allora facevo la sindacalista – un momento in cui avevo delle emorragie molto forti, ero in una condizione di stanchezza continua. Ci fu un passaggio, un micro conflitto con una donna nato proprio dalla mia stanchezza e dalla mia incapacità di gestire e governare una situazione di difficoltà che c’era che mi fece pensare a come io rischiavo di perdere me stessa, di diventare una persona sgradevole, dura, non accogliente – non materna mi viene da dire – se rimanevo centrata su questo dato del mio utero che doveva essere tolto e con questo era la negazione… io dissi, proprio flash: “l’Elettra è più importante del suo utero!”.
Ho fatto l’intervento, ho avuto l’isterectomia, ed è stato forse il momento – lo sto ripensando ora – il momento cardine della mia modalità di essere in relazione con il mio corpo e la mia presenza nel mondo.
Ancora ora ci penso, credo sia umano, a quello che è il senso della mia presenza e della mia durata soprattutto, però non lo vedo legato alla maternità biologica.
Anche se forse sarei stata… ma non lo so e non mi interessa nemmeno saperlo. So che in un certo periodo è stato un problema vero e so che dietro alla mia scelta-non scelta – non so se è stata una scelta o un condizionamento – di non aver figli perché avevo fatto altre scelte di presenza, di impegno, di militanza che escludevano anche questo dato, in una certa fase è stato un passaggio doloroso, perché mi sembrava essere un elemento castrante rispetto alla mia identità.
È quasi un paradosso proprio l’aver dovuto fare i conti con l’isterectomia… perché prima c’era stato… Sì, decido di dirla perché è importante dirla: prima c’era stato un passaggio molto forte quando avevo individuato i fibromi ho incominciato a fare le visite, gli accertamenti vari per valutare che tipo di intervento era necessario fare. Un’amica, che viveva in questa casa, mi accompagnò da un celebre ginecologo fiorentino nel suo studio privato.
Intanto la scena – a me che sono abbastanza attenta ai dati di comunicazione – per cui lo spogliatoio bello, di legno, molto elegante e raffinato era in un angolo e il lettino nell’altro, quindi io dovevo spogliarmi e dovevo camminare attraverso la stanza a culo nudo, come si dice a Firenze.
Poi fece la visita, poi mi disse – interrotto da telefonate in cui parlava della sua settimana bianca, di chi aveva visto e non aveva visto: “tanto a quest’età l’utero non le serve più, lo possiamo togliere”. Lo avrei strozzato. E quel passaggio su: “lei ormai ha un’età in cui l’utero non le serve più”, questa frase ce l’ho scolpita in testa.
So che è stata quella che mi ha fatto star molto male, perché mi ha fatto evidenziare e mettere in luce il fatto che non avevo usato uno strumento fondamentale del mio corpo rispetto alla funzione che questo doveva avere e quindi poteva anche essere tranquillamente tolto.
Per fortuna quello è stato l’inizio di un anno faticoso, difficile, accompagnata anche da una donna ginecologa, che mi ha fatto capire meglio tutta una serie di passaggi; ma al di là dell’accompagnamento con lei, è stata una messa a fuoco mia che mi è servita molto, anche dopo.
E quindi ora sono una donna senza figli che però si sente di avere tanti figli. Fisici e non fisici: so che sono una creativa; so che amo fare le cose per gli altri; che ho fatto il sindaco nel mio paese alimentata da uno spirito che non era lo spirito dell’egoismo e del fare le cose per me o di un interesse finalizzato a obiettivi di parzialità ma anzi, era proprio un modo gioioso e faticoso di esprimere il mio amore per una terra dalla quale sono nata e nella quale avevo desiderio di lasciare traccia di me. Poi, siccome sono successe delle cose legate alla politica di questi tempi per cui io non sono riuscita a potare a fondo il mio progetto di presenza e di segno rispetto a questa realtà che amo e vedo molte pianticelle che stavano nascendo dai semi che ho gettato che non sono state capite, apprezzate e diventate altro, ho avuto un momento di rabbia e dolore; ora invece sento, un po’ come per i figli, queste frecce lanciate dall’arco che poi a un certo punto devono fare la loro storia. Io ci sono stata. Io ci sono stata per cinque anni manifestando una dimensione di me che aveva a che fare la dimensione femminile della maternità rispetto al territorio. Poi il territorio va da un’altra parte. È la sua. Lo guardo, lo accompagno, ci sono vicino, mi piace starci ancora però forse è proprio questo figliolo che diventa grande e va da una parte dove la mamma non avrebbe voluto.
Forse è un caso, però il file che è aperto se si va di là sul computer è il file di un progetto che avevo preso in mano qualche tempo fa e poi lasciato un po’ da parte e che adesso evidentemente ho voglia di riprendere che ho chiamato “La mia mitologia familiare”. Io ho due pronipotini che vivono in Francia; i miei nipoti sono stati persone molto importanti per me, ho dimenticato di dirlo prima, ma sicuramente al di là della dimensione pubblica, delle relazioni creative e amicali, io sono stata una zia e vorrei parlare anche dell’importanza dell’essere zia e non madre. Ho avuto uno zio a mia volta che è stato una figura maschile di grande riferimento per me: zio scapolo, figura molto diversa e molto importante per me, mi verrebbe da dire più laica rispetto a quella cardine della genitorialità.
Anche io per i miei nipoti sono stata e sono una zia non di quelle che si vedono per natale, capodanno e durante le feste; non a caso questa mia casa è stata condivisa in momenti di grande apertura, di grande gioiosità e anche rispetto alle vicende molto dure e molto dolorose proprio con i miei nipoti. Allora, i miei nipotini in Francia non hanno la possibilità di sentirsi raccontare le storie di famiglia così come me le sono sentite raccontare io e così come io le ho in parte trasmesse ai miei nipoti. Non sono le storie di famiglia, non a caso ho parlato di mitologia familiare, non di storia di famiglia. Ma proprio quelle storie che ti consentono di avere delle figure mitiche di riferimento che poi son quelle a cui ti agganci, ti richiami in momenti non facili della tua esistenza, oppure anche in fasi più aperte… però ti accompagnano e stanno dietro di te.
Quindi da questo punto di vista indubbiamente l’elemento del durare c’è, e anche questo, mi verrebbe da dire una cosa grossa, senso dell’esistenza; perché io sono passata, cosa in questo transito ho raccolto per me e ho seminato per gli altri?
Fra l’altro mi piace molto, e mi piaceva ai tempi in cui ero sindaca, pensare che seminavo con i semi del mio raccolto, grazie all’aver avuto tante esperienze, tanti incontri. Oggi so che è un continuo divenire, raccogliere, seminare; il seme che se lo tieni lì va a male, deperisce, non ha più la sua capacità germinativa e se invece circola riesce ad alimentare, a produrre degli elementi di grande ricchezza per gli altri. E quindi questa io mi sento oggi: una che fa i conti con la maternità non vissuta però non in maniera acrimoniosa, rancorosa del tipo: “se avessi avuto un figlio sarei stata una madre perfetta” oppure “io figli non ne voglio sapere, i figlioli frignoli, ucci ucci chi li fa se li trastulli”, eccetera eccetera. Dico che è una dimensione importante, dico che è importante sentirsi per gli altri e per il mondo e non soltanto sentirsi per se stessi ma che c’è un’interazione continua, costante e forte in tutto questo.
Io sento con il passare del tempo, ora che non c’è più, molto forte il rapporto con la mia mamma, e sento e mi vedo in alcuni momenti avere dei tic, dei sorrisi, dei gesti che erano i suoi e che non erano i miei. Quindi sento la madre che è in me, sento anche molto forte – e dico sento, sul piano della fisicità corporea – che io sono lei, che io sono diversissima da lei, che ho avuto grandi conflitti con lei, che ho preso le distanze, che mi sono riconciliata e ora sento che in una certa misura è dentro di me. Un pochino mi dispiace non avere qualcuno che si porta l’Elettra dentro, e se la porterà accanto, è così bello anche accompagnare.
Gli altri e le altre mi verrebbe da dire.
“Non hai figli e quindi sei donna a metà o comunque una donna che ha riempito il suo vuoto facendo altro, poverina!”. E a seconda dell’essere un giudizio, un atteggiamento da parte di uomini o di donne, c’è una maggiore o minore sottolineatura rispetto al “poverina” e al “non sai quello che ti sei persa”. I commenti soprattutto da donne, donne a cui voglio bene: “tu non sei madre, non puoi capire”.
Io sono convinta che non essere madre non mi consente di avere elementi di visceralità, anche proprio ultra sensoriale mi viene da dire – perché io la sento con mia madre che non c’è più ora e quindi immagino che forza maggiore ci sia rispetto all’aver avuto in grembo un qualcuno che poi è nel mondo dove è altro da te – questa cosa quando arriva ancora qualche eco ce l’ha e quindi dico: “È vero, però è vero anche che io ho avuto altro”, che io ho sviluppato questa attitudine forse all’accompagnare più che al dire sono io che… è questo elemento proprio di accompagnamento rispetto a tanti e a tante che continua ancora oggi. Non avere questo elemento della linearità per cui tu sei uscito da me, ma uno sguardo un po’ più laterale che a volte ti consente di scoprire anche delle cose in più; sia per quelli o quelle che tu accompagni sia per te stessa che li stai accompagnando in quel momento, rispetto che in questa dimensione, invece molto più di compenetrazione, che c’è nella relazione tra madre e figlio. Da una parte c’è un incommensurabile altro – io dico incommensurabile perché io non sono in grado di misurarlo e di conoscerlo – però so quanto di incommensurabile altro c’è in una dimensione di accompagnamento.
Distinguiamo la cultura familiare dalla cultura locale. Perché nella mia storia è stato un imprinting forte, ha segnato probabilmente anche il mio non avere figli ed essere donna che fa altre scelte: i miei hanno deciso che io dovevo studiare quindi a 11 anni dovevo prendere il treno per venire da Vicchio a Firenze. Io ho cominciato a fare la pendolare a 11 anni nel ‘55.
Da Vicchio a Firenze voleva dire oltre un’ora di treno, dalla campagna alla città. Però io ho incontrato la città a 11 anni e l’ho incontrata da sola in autonomia. Quindi vengo da una cultura rurale e contadina, però ho visto anche presto anche l’altro mondo.
La mia difficoltà e la mia fatica grossa a farmi capire e affermare è stata proprio il fatto che io ero stata scelta perché donna ma non accettata rispetto a degli stili che erano di donna e non maschili. Spiego un po’ meglio questo discorso abbastanza complesso: chi ha posto la mia candidatura e mi ha aiutata a diventare sindaco, la politica di cinque o sei anni fa era ben contenta di dire: “noi portiamo una donna e siamo il nuovo e affermiamo una società più aperta, più accogliente, che integra” eccetera. Trovarsi a fare i conti con una donna strana perché accudiva la mamma e quindi dimostrava di avere degli elementi da brava figlia e non disinteressata, distratta e non attenta alla dimensione affettiva della famiglia che però non aveva una famiglia sua e non si comportava, non accettava gli schemi e il linguaggio che invece erano quelli che si sarebbero aspettati in una dimensione normalmente da uomini o fra uomini. Della serie: sei una donna, sei stata scelta da uomini, stai in un consesso maschile, fai la donna però comportati da uomo. Accetta dei codici, dei modi di essere, infatti una delle frasi più comuni era: “ma che cosa vorrà dire?” e io dicevo: “esattamente quello che ho detto!”, “ma cosa ci sarà dietro?”.
Ho dovuto fare i conti con un parlarsi per segni, per linguaggi, per codici che io non accettavo, che non volevo, che non erano i miei. Per di più con dei comportamenti, anche proprio nella gestione del mio ruolo, molto più attenti alla dimensione della relazione diretta con il bambino che va a scuola piuttosto che con la persona strana che non vuole una casa e vive in un bosco però d’inverno bisogna dargli un riparo – non a caso prendo due casi che ho seguito personalmente e che mi hanno segnato molto – piuttosto che la relazione coi piccoli poteri locali e fare i conti con: “in quella frazione quello porta voti, quello è quello che conta e se te il cassonetto non glielo rimetti dove lui vuole poi te la farà pagare”, e me l’hanno fatta pagare!
Io ti posso dare un’immagine perché me la sono sentita molto mia. Vi ho raccontato di come i miei 40 anni con il mio utero fibromatoso siano stati un momento di grande difficoltà, fatica e guardarsi allo specchio; ti posso dire che, passati pochi mesi dall’intervento, sono andata a fare un viaggio con Avventure nel Mondo in Madagascar – viaggio difficile, pieno di problemi, di questioni – e mi sentivo bene, piena di energia, ricchissima, fra l’altro
proprio fisicamente, non avevo più l’anemia finalmente! Quindi non avevo più questo senso di pesantezza; quindi si partiva da una condizione fisica per cui il mio organismo reagiva, rifioriva che era una meraviglia e io mi sentivo un albero che è stato potato durante l’inverno e che poi in primavera esplode. E poi ti devo raccontare un’altra storia perché molto in tema anche questa e forse anche di più. Mentre ero convalescente, in questa casa, c’era un’amica che mi portava la spesa perché non dovevo fare le scale con i pesi e una mattina d’inverno, perché l’intervento era stato in autunno, mi porta un ficus benjamin, alto così, tutto rinsecchito e che aveva trovato nella spazzatura e mi dice: “guarda, questo l’hanno buttato via, però tu hai il pollice verde, sicuramente lo puoi far rifiorire; guarda cosa gli puoi fare, due o tre foglioline ci sono ancora”.
Io l’ho odiata, perché dico “come si fa a portare a una che è stanca un albero secco”. Però mi sono messa lì, l’ho poticchiato e l’ho lasciato in disparte, non mi sono presa molta cura di lui, o di lei, non lo so bene. Finché una sera, dopo qualche mese, arriva un’altra amica e mi fa: “ma lo vedi quest’albero vuol vivere, ha voglia di esplodere”; io l’ho guardato con amore. Questo ficus mi ha accompagnato fino a due anni fa quando è morto perché era arrivato il momento in cui doveva morire ed era diventato un albero che doveva stare in terrazza. Io parlavo con lui e lui con me ed era rifiorito, era diventato una cosa meravigliosa in quello stesso inverno.
E quella è un’altra storia di ramo secco che riprende vigore se sa che basta avere una bella radice dentro di sé. »

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