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“Make Kin, Not Babies”: Fare Relazioni, Non Bambini.  Omaggio A Lidia Curti Di Claudia Mazzilli
Lidia Curti

“Make kin, not babies”: fare relazioni, non bambini. Omaggio a Lidia Curti di Claudia Mazzilli

A circa un anno dalla sua scomparsa (21 aprile 2021),  Lunàdigas rende omaggio a Lidia Curti, critica femminista, studiosa di studi culturali e postcoloniali e professore onoraria di letteratura inglese all’Università di Napoli “L’Orientale”.

Lo facciamo recuperando alcuni spunti della raccolta di saggi Femminismi futuri (Iacobelli editore 2019, a cura di Lidia Curti con Antonia Anna Ferrante e Marina Vitale). Non abbiamo alcuna pretesa di poter interpretare con rigore ed esaustività un’opera che è frutto di anni di studio interdisciplinare di tutto il gruppo di ricerca Femminismi Futuri, ma nutriamo la speranza di far conoscere a chi ci segue qualcuna delle opere di autrici care a Lidia Curti e di contribuire così a consolidare la memoria di Lidia, maestra capace di connessioni tra i femminismi di tutto il mondo: lo dimostra già la copertina dell’opera, con una scultura dell’artista keniana Wangechi Mutu, le cui figure mutanti sfidano i confini tra specie, tra identità razziali e tra generi.

Femminismi futuri è un’arca che raccoglie alcuni saggi di una ventina di pagine l’uno, corredati da esauriente bibliografia, che s’intersecano tra loro, gettano ponti e ci invitano ad esplorare e costruire un nuovo immaginario, fuori dagli schemi del tecno-patriarcato, esplorando le opere di artiste, narratrici e filosofe del panorama internazionale.

Movimento libero e rivoluzione riproduttiva: questo è il leitmotiv a cui teniamo di più come lunàdigas ed è anche la traccia che fin dall’inizio attraversa molti contributi, che partono (con Marina Vitale, pp. 19-36) dalla nuova ecologia della californiana Donna Haraway, autrice del saggio Chthulucene, Sopravvivere su un pianeta infetto (trad. di C. Durastanti e C. Ciccioni, Produzioni Nero 2019). Nell’ultimo capitolo la Haraway abbandona l’argomentazione teorica e si cimenta nel racconto “speculativo” (un filone – non sempre distinguibile dalla fantascienza e dalla distopia – che colloca nel futuro cose possibili o persino già avvenute, sulla base di solide premesse sociali, scientifiche o filosofiche; un esempio noto a tutti: Il racconto dell’ancella di Margaret Atwood). Così Donna Haraway immagina, in un futuro ormai imminente (dal 2025 in poi), alleanze simbiotiche tra specie umana e specie vegetali e animali in un ecosistema devastato, attraverso la storia di cinque generazioni di “Camille” (un nome ibrido, né maschile né femminile): pratiche di resistenza in comunità solidali, che si basano sul motto “Make kin, not babies”: fare relazioni, non bambini. In ogni famiglia ci sono almeno tre figure parentali, che non sempre coincidono con i genitori biologici e con il genere della (cosiddetta) famiglia naturale. Anzi, uno degli obiettivi di questa organizzazione sociale è sostituire la famiglia tradizionalmente intesa con nuclei comunitari ispirati a pratiche di cura, di mutualità, di decremento demografico e di responsabilità verso l’ambiente distrutto: si tratta, inoltre, di comunità non permanenti, ma fluide e aperte, in cui è ben accolta ogni differenza, a partire dal colore della pelle. Tra le forme di solidarietà trans-specie c’è la creazione di corridoi migratori per animali in via di estinzione, come la farfalla monarca, che si sposta tra il Canada e il Messico. Una critica radicale, dunque, al concetto rigido di frontiera.

Infatti, come osserva Lidia Curti nel secondo saggio del volume, “la neurobiologia vegetale ci ricorda che la grande maggioranza degli esseri viventi sul nostro pianeta è costituita da piante che lo abitano da centinaia di milioni di anni prima di noi; formano una nazione senza confini, fondata su convivenza e mutuo appoggio; movimento e migrazione sono elementi essenziali alla sopravvivenza delle specie” (p. 42). Ma la migrazione dei semi tiene conto anche di fattori antropici, come le diaspore o le deportazioni di schiavi africani che costellano la cartografia del colonialismo europeo. L’offesa contro la vita e l’ambiente si esprimono anche nelle tassonomie astratte e gerarchiche della botanica, costruite, a partire da Linnaeus, con la stessa forma mentis del razzismo coloniale e del meccanismo della piantagione, basato sulla replica di piante estranee all’ambiente a danno (e sterminio) delle piante locali. Entro questo solco teorico s’inscrivono le opere dell’artista Maria Theresa Alves (nativa di San Paolo in Brasile) in Wake for Berlin (installazione 1999-2001) e in Seeds of Change del 2009 (http://www.mariatherezaalves.org/works) o quelle dell’antropologa e artista palestinese Vivien Sansour (a Beit Jala, nel cuore dei Territori Palestinesi Occupati, ha dato vita al Palestine Heirloom Seed Library, un “archivio dei semi”, volto a preservare biodiversità e tradizioni agricole come contro-memoria di un’altra Storia: https://www.youtube.com/watch?v=XoexxUOeZak) e di molte altre artiste, narratrici e filosofe poco conosciute dal grande pubblico e ingiustamente marginalizzate dai media. Da menzionare anche il docufilm fantascientifico di Larissa Sansour, In the Future They Ate from the Finest Porcelain: un gruppo di resistenti scava dei depositi per depositarvi manufatti in porcellana che permetteranno future rivendicazioni della terra da cui questa civiltà è stata spossessata (per una rassegna completa cfr. le pp. 42-49 e 78-96, rispettivamente a cura di Lidia Curti e Olga Solombrino).

Nel terzo saggio Silvana Carotenuto (pp. 58-77) illustra un romanzo della coreana Han Kang, La vegetariana (trad. di M. Z. Ciccimarra, Adelphi 2016): il rifiuto di mangiare carne animale e l’aspirazione a farsi pianta, vivendo solo di acqua, è una critica radicale al “carno-fallo-logo-centrismo” patriarcale (la definizione è di J. Derridda).

Almeno un cenno merita il saggio di Tiziana Terranova (pp. 99-111) sul film del 1997 Conceiving Ada, co-scenneggiato e diretto dall’artista e cineasta americana Lynn Hershman Leeson: la protagonista, Emmy Coer, è una programmatrice che si appassiona alla figura di Lady Ada Lovelace, figlia del poeta Lord Byron, crittografa e genio della matematica, che scrisse il primo algoritmo per il prototipo meccanico del moderno computer, la macchina dell’ingegnere Charles Baggage. Emmy riesce a mandare indietro nel tempo un piccione digitale, sfruttando le proprietà quantiche dell’informazione. Emmy può così assistere alla vita di Ada e copiarne la memoria nell’embrione femminile che porta in grembo, dandola alla luce in un’epoca in cui la bambina, con il sostegno della madre “cyber-partenogenetica”, potrà esprimere tutte le sue potenzialità un po’ meglio che nell’Inghilterra di primo Ottocento. Istituendo un suggestivo confronto con Una stanza tutta per sé in cui Virginia Woolf rivendicava per le donne la necessità dell’autonomia economica e dell’emancipazione dai doveri domestici, Tiziana Terranova si sofferma su una scena cruciale del film, in cui Ada Lovelace, in fin di vita a soli 36 anni, confida alla scrittrice Mary Shelley di voler solo “sognare e pensare in pace”, ma di non poterlo fare per mancanza di tempo: “Resistere a questa pressione l’ha resa una “bastian contraria” esaurendone le energie nel dispendio richiesto dalla resistenza a tanta manipolazione. Cosa ha causato il dissanguamento di cui Ada soffre, sintomo di quella malattia che la porterà alla morte precoce? È stato lo studio, e specificamente la logica e la matematica, non adatto al fisico nervoso e debole delle donne, come sostiene la medicina vittoriana? O è stato il patriarcato che le ha sfiancato e distrutto il corpo portandosi con sé tutte le potenzialità che la straordinaria matematica e programmatrice poteva ancora sviluppare? (…) In un certo senso è proprio questa incertezza o precarietà temporale a costituire in questo momento la fonte di una nuova scarsità di tempo per chi vuole “sognare e pensare”, mentre dall’altro lato per altr*, il tempo viene liberamente “sprecato” nelle varie forme di incarcerazione di massa e sospensione dei diritti della vita, in prigione o nei campi profughi, o nell’attesa di liberazione o permessi che non arrivano mai” (pp. 100-101). Un film che, a distanza di venticinque anni, mantiene intatta la sua attualità anche ora che il cyberspazio non è più il futuro, ma ibridizza costantemente la nostra quotidianità in modo permeabile, multiplo, tattile: da WordPress a Facebook a Twitter a Tumbler, a Youtube, a Instagram e Whatsapp fino al “capitalismo da piattaforma” di Netflix (come lo chiama Antonia Anna Ferrante, pp. 112-129).

C’è molto altro nel saggio Femminismi futuri; le poche righe che seguono non rendono giustizia alle tante artiste e filosofe di tutto il mondo meritevoli di attenzione, ma servono almeno a citare le studiose italiane che hanno contribuito al volume: riflessioni illuminanti sul Manifesto Xenofemminista del collettivo Laboria Kubonicks e sul Black Quantum Futurism di Camae Ayewa e Rasheedah Phillips (Roberta Colavecchio, pp. 144-147); pagine che ripercorrono la storia delle artiste femministe dagli anni Sessanta e Settanta e della loro ricezione critica (Alessandra Ferlito, pp. 150-170); riferimenti e interconnessioni tra le opere di Ursula LeGuin e di Naomi Alderman o i romanzi afrofuturisti di Octavia Butler e le altre forme d’arte, compresa la cinematografia e le serie televisive. C’è, infine, la riscrittura di figure femminili nuove come l’influencer digitale Li Miquela (di Stamatia Portanova, pp. 173-194) e di figure della mitologia antica (Lilith, Kalì, Giocasta, Antigone, ad opera di Luciana Parisi, Suzanne Livingston, Anna Greenspan): tentativi di costruire una grammatica artistica e argomentativa nuova, dentro paradigmi radicalmente rivoluzionari, come nelle rivisitazioni figurative dell’artista indiana Nalini Malani che nel 2018-2019 riconosceva nella profetessa Cassandra “l’impresa incompiuta della rivoluzione femminile”, che ancora oggi, mai esausta, ammonisce i rappresentanti del patriarcato sui disastri ecologici e umanitari del pianeta.

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