Come mantengo viva la memoria di tutte quelle donne che non hanno avuto voce?
Tela di taranta di Elianda Cazzorla
Una recensione di Claudia Mazzilli
Immaginate una donna sola e oppressa nella società contadina, alla metà del secolo scorso. Immaginate una donna che, in un Sud rurale e patriarcale, non ha voluto figli. O una donna costretta a nozze non volute. Immaginate una donna povera. E una donna che scopre di amare un’altra donna. Immaginate donne con un qualsiasi altro genere di frustrazione, di trauma, di dolore o lutto non elaborato, o deprivazione materiale, o sogno di erotismo. Come queste donne potevano esprimere il loro male di vivere? Quale canale – socialmente accettato – per dare voce a ciò che avrebbe inevitabilmente incontrato una censura? Quale espressione per riaffermare il corpo negato?
Fu merito di Ernesto De Martino e della sua équipe multidisciplinare, nell’estate del 1959, esplorare il mondo delle tarantate, nel Salento, prima che la società di massa e l’omologazione consumistica spazzassero via questo e altri mondi. Nel ruolo di etnologo, De Martino studiò il loro linguaggio, il loro immaginario, tutto il sistema simbolico che ruota intorno al morso della taranta, il cui ballo non è la risposta al morso di un ragno vero (rarissime le crisi reali di latrodectismo, cioè di intossicazione causata dal morso velenoso), ma un rito legato a un “morso simbolico”, la cui sindrome si ripete secondo le cadenze dell’annata agricola e il calendario dei santi cristiani, nel quale hanno un ruolo centrale i giorni di festa dedicati a San Paolo. De Martino seppe confutare la tesi di una diretta derivazione del tarantismo dai riti iniziatici e orgiastici del mondo antico, individuandolo come neoformazione medievale articolata in fili compositi, entro un intreccio rituale, immaginativo e semantico stratificato, plurale e sincretistico ma irriducibile ad altro.
Un fenomeno, il tarantismo, molto più diffuso tra le donne che tra gli uomini, che coinvolgeva fanciulle pubescenti, zitelle, spose infelici, vedove, donne dagli amori a vario titolo inaccessibili. Tutte manifestavano sintomi parossistici: caduta al suolo, spossatezza e angoscia, difficoltà a mantenersi in piedi, nausea e vomito, parestesie e dolori muscolari, allucinazioni, disordine motorio. Dunque non un mero fenomeno di tipo medico (intossicazione da morso di insetto) o psichico (patologia psichiatrica…) ma un istituto simbolico culturalmente condizionato nel quale trovava soluzione una crisi nevrotica anch’essa culturalmente modellata, curata con l’esorcismo della danza, della musica e dei colori (sotto forma di nastrini colorati). Una crisi che si manifestava nella stagione calda (da maggio ad agosto, il periodo più intenso di lavori agricoli: mietitura, spigolatura, trebbiatura, raccolto di ortaggi, vendemmia…), quando “si fanno i conti”, sia sul piano economico sia sul piano esistenziale. Il simbolo del tarantismo configura un episodio critico del passato come “primo morso” e come ciclico “rimorso” della taranta: dà linguaggio cifrato a un conflitto rimasto senza scelta. Attraverso questo rituale periodico, che garantiva l’evocazione, il deflusso e la risoluzione delle pulsioni psichiche e dei conflitti irrisolti, in primis l’eros precluso dall’ordine socio-familiare, le donne si liberavano dal rischio di crisi durante le altre stagioni dell’anno. Ecco chi sono le tarantate descritte da Ernesto De Martino nell’ormai classico La terra del rimorso (1961), che dà conto della sua indagine sul campo e interpreta le fonti letterarie sul tema giunte a noi attraverso i secoli.
A distanza di più di cinquant’anni, nel romanzo Tela di taranta (Iacobelli editore, 2021), Elianda Cazzorla ripercorre la vicenda di quella ricerca nel Salento, individuandovi una lacuna, una colpa, dolorosa per la storia delle donne dedite allo studio, spesso destinate all’oblio in un mondo accademico tuttora baronale e maschile. È la storia della ricercatrice Annabella Rossi, mai gratificata da Ernesto De Martino. Questa storia è narrata da una penna lieve e ironica, nella cornice di una struttura narrativa meditata, che però resiste alla classificazione in un preciso sottogenere: romanzo storico (senza svelare le dosi di “vero”, “utile” e “interessante”, come in una ricetta segreta), racconto fantastico, giallo un po’ surreale un po’ filologico. Di certo siamo di fronte a un romanzo che ha digerito ricerche ostinate, lunghe e assidue letture (lo documenta la ricca sito-bibliografia in appendice) per distillare tutto questo lavoro preparatorio in una narrazione breve e dotata di calviniana leggerezza, nonostante il contenuto di dolore atavico (quello delle nostre antenate) da cui prende le mosse.
A casa di Ada (alter ego dell’autrice), pugliese trapiantata da anni a Padova, giunge una valigia con gli oggetti di cui vuole disfarsi la seconda moglie di suo padre. Sono perlopiù piccole cose appartenute alla madre di Ada (una maestra che al lavoro e al volontariato dava un significato militante, rafforzato dalle letture, tra cui i libri di Danilo Dolci). Tra oggettini e ritagli di giornale, in una scatola di legno, ci sono una ventina di foglietti arrotolati, che contengono frasi frammentarie e sgrammaticate come questa: “E sono rimasta come lisolo a mezzo a mare”. Chi li ha scritti? Per chi? A che scopo?
Ada parte per un viaggio alla ricerca della verità, ma soprattutto alla ricerca delle proprie origini (tra genealogie familiari e simboliche che è meglio non svelare con facili spoiler). Un viaggio che, nel 2014, la porta a Roma (al Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni popolari) e poi in Puglia, tra case antiche, vicoli e cimiteri, lungo la diafana pista di foto, documenti, libri e testimonianze orali che la aiutino a orientarsi nel mistero e a scioglierlo. Prende così forma la vicenda di Annabella Rossi, che fece parte dell’équipe di Ernesto De Martino senza figurarvi ufficialmente: e infatti non fu menzionata nel suo libro più famoso né ottenne particolari riconoscimenti. Fotografa con una formazione antropologica, pubblicò le Lettere da una tarantata: sono le lettere che le inviò Michela Margiotta, tarantata di Ruffano, il cui nome sia nell’edizione del 1970 sia in quella del 1994 è stato mutato in Anna.
Ada confronta le due edizioni (la più antica è corredata di fotografie) e altri materiali d’archivio, provando sulla propria pelle la fatica che fu di Annabella Rossi e incontrando in prima persona mille difficoltà nell’accedere ai documenti per chi fa ricerca indipendente senza il mandato dell’Accademia, spinto solo dall’intuizione o da una curiosità personale o dell’ispirazione letteraria, tra gli inciampi continui causati dalla burocrazia patriarcale (vietato fotografare, vietato fotocopiare, vietato il prestito dei libri…, per questo serve una liberatoria, per quest’altro un’autorizzazione scritta…):
Una maschera, Potrei proporla per la commedia dell’arte. Accanto a Colombina, Pulcinella, Brighella, ci sta Ricerchella. Maschera femminile nata nei musei e negli archivi italiani. Il personaggio in ricerca libera, non potendo riprodurre nessun documento sotto nessuna forma, escogita birichinate e pratica sotterfugi per aggirare le regole restrittive della riproduzione di pagine (p. 81).
Come Annabella, Ada ha qualche perplessità di metodo sul distacco del ricercatore a garanzia dell’obiettività dell’indagine. Ada immagina, anzi “intrattiene” veri dialoghi con le defunte Annabella e con Anna/Michela, tra varie allucinazioni e uno svenimento, che forse ammiccano, in modo divertito, proprio al delirio delle tarantate e ai loro dialoghi allucinati con San Paolo, San Donato o con altri santi o con la taranta.
Come riconobbe l’insigne linguista Tullio De Mauro, le lettere inviate ad Annabella Rossi dalla tarantata Michela Margiotta (contadina che zappò a giornata, maltrattata dal padre, sottomessa ai suoi sette fratelli, ostinata nella scelta di non sposarsi e di non avere figli) sono una testimonianza preziosa della lingua popolare scritta di una persona con scolarità minima (la prima elementare). E sono anche una scrittura d’amore: le parole di una donna analfabeta che, con ogni sforzo, tenta di tenere desta l’attenzione della “Buona Signorina” tanto amata, chiedendole doni, risposte, reciprocità, riconoscimento, nonostante le differenze sociali e culturali tra la contadina e la ricercatrice.
Ada passa al setaccio il carteggio: lettere di risposta ad Annabella e lettere spontanee, lettere scritte di proprio pugno, con i pensieri dati sulla carta così come vengono, e lettere dettate a scrivani occasionali, con le emozioni trasformate “in parole dentro frasi dotate di senso, ma meno vive e vere del vissuto originario. Ed è già traduzione” (p. 142).
La successione dei capitoli è costruita in modo da “farci diventare Ada” mentre leggiamo: attraverso intuizioni e deduzioni, chi legge diventa protagonista dell’indagine. Un filo sottile come quello filato da un ragno tiene insieme tutte le figure femminili del libro: Ada, sua madre Laura, la tarantata Anna/Michela, la ricercatrice Annabella Rossi. Ciascuna si scontra con i limiti di un’emancipazione difficile, ciascuna percorre il proprio cammino facendo solo un pezzettino di strada ma, in una continua e solidale staffetta, ciò che resta incompiuto per l’una è destinato ad essere completato da un’altra: percorsi e progetti lasciati a metà ma anche piccole conquiste da lasciare in eredità dalle “antenate” alle “figlie” (non necessariamente figlie di sangue).
Prima ancora che sia esplicitamente formulata nelle ultime pagine del libro, la domanda che lo attraversa è: Come mantengo viva la memoria di tutte quelle donne che non hanno avuto voce?
Non c’è un’unica risposta. Quel che conta è tessere, in qualche modo, una tela di taranta che tenga unite le vite di donne sia ordinarie sia straordinarie. Alcuni fili resteranno invisibili, impercettibili, ma prima o poi arriverà un raggio di sole a illuminarli, a svelare il lavoro silenzioso di chi ha intrecciato la tela.
Elianda Cazzorla è di Monopoli, è nata a Bari e vive a Padova; giornalista, laureata in Filosofia, già insegnante di lingua e letteratura italiana, è esperta di educazione linguistica e autrice di antologie per la scuola superiore; scrive per quotidiani e mensili e collabora con il blog Cartesensibili, con Leggendaria e Letterate Magazine. È tra le autrici di “Un anno di storie”, Edizioni Cleup, per gli anni 2019, 2020, 2021; un suo racconto è in “Le stanze del grano”, Laurana editore, 2020. “Isolina, un martedì” (Iacobelli, 2019) è il suo romanzo d’esordio.