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Lea Melandri: "Il femminismo è stato un atto straordinario di nascita"



La decisione definitiva start 00:09:50end 00:22:23 Lea Melandri ripercorre i temi centrali della sua ricerca che affondano le origini nella sua autobiografia e sono alla base anche della sua scelta di non avere figli: la dualità dolorosa vissuta tra corpo e cultura, tra il corpo e lo spazio del suo pensiero, la dualità del rapporto madre-figlio, dove lei ha incarnato sia il figlio, come attesa di percorso, sia la figlia, come bambola tra le mani della madre; la ricerca sull'origine e sul sogno dell'amore, inteso come fusionalità e perfetta armonia tra anime, la condizione di singolitudine, condizione privilegiata di stare con sé stessi e non creare rapporti di dipendenza con terzi.trascrizione LEA MELANDRI: "Intanto, devo dire, sì, io non ho mai avuto l'idea della coppia, della famiglia, matrimonio, convivenza, eccetera. Mentre sicuramente molto presente nella mia vita è il sogno d'amore, la passione, l'amore come passione, come momento esaltante di fusione di anime. Che poi è tutta una vicenda che ho rivissuto un po' attraverso la lettura di Sibilla Aleramo, perché Sibilla Aleramo aveva duecento amanti, io pochissimi. Però la logica è la stessa ogni volta, cioè ogni volta ricostruire con l'altro questa fusione sublime, la fusionalità, il sogno d'amore come sogno di armonia, di composizione degli opposti, che è stato poi un tema ricorrente della mia riflessione. Negli anni ‘80 il mio libro "Come è nato il sogno d'amore", anche se non è un racconto di vita, non è un'autobiografia, però è il più autobiografico. Quindi la passione d'amore risponde a un'idea di eternità. È il "per sempre", no? è qualcosa di... è come dire un ideale di armonia perfetta fuori dal tempo. E' fuori dal tempo, fuori dalla costruzione della relazione. E quindi io attribuisco anche a questa continuità nella mia storia, il sogno d'amore, il fatto di non aver poi... ogni volta, anche quei pochi rapporti che ho avuto, non avevano la prospettiva né della convivenza né... l'unico momento in cui si è vagamente, ripeto proprio molto velatamente prospettato, è stato nel rapporto più importante forse, il primo e il più importante, con Elvio Fachinelli, lo psicanalista che è morto nel ‘89. Noi abbiamo avuto una relazione che era l'impegno, noi abbiamo messo in piedi la rivista "L'erba voglio", che è stata una rivista molto importante degli anni '70. E facevamo insieme la rivista e abbiamo avuto una relazione che è durata cinque anni. E lì vagamente, velatamente, [dicevo"si potrebbe avere un figlio". E lui mi ha detto: "sì, vi vengo a trovare". E io ho fatto così... ho capito. In realtà io volevo fare la rivista. La creatura vera era la rivista: cominciavo a scrivere, era l'inizio della mia scrittura pubblica, avevo cominciato, conosciuto il femminismo nel ‘71, quindi ero io che nascevo in quel momento. Ripeto, era stato così, un accenno velatissimo. Dopodiché non mi sono mai posta il problema, non c'era neanche l'idea del "faccio o non faccio un figlio", non si poneva nei termini di scelta. Probabilmente io credo proprio perché… intanto perché mi sono vissuta come figlia e... mi chiedevo anche, pensando a questo incontro che avremmo avuto, mi chiedevo come mai io non mi sono... cioè la prima volta che mi sono posta in modo diretto, specifico, il problema dell'avere o non avere figli è stato quando Paola Leonardi e Ferdinanda Vigliani sono venute a intervistarmi.
Però poi ho pensato, pensavo in questi giorni, che indirettamente invece… in realtà io ho affrontato questo tema mettendo al centro della mia ricerca, anche teorica, la questione dell'origine del rapporto tra i sessi, l'origine cioè, questa differenziazione così violenta tra natura e cultura: la donna relegata nel corpo e l'uomo legato alla storia. In realtà io ho messo sempre al centro la questione madre-figlio in particolare, più che figlia/figlio, perché nella coppia, nella mia ipotesi diciamo, c'è l'idea che la relazione madre-figlio sia l'impianto originario di questa differenziazione violenta, nel senso che è nello sguardo dell'uomo-figlio che si costruisce quest'idea di un corpo femminile potente, in un corpo che all'inizio è stato pensato come un corpo che genera da sé. C'è voluto molto tempo prima che gli uomini realizzassero la loro partecipazione al processo generativo. Questo corpo femminile con cui sei stato tutt'uno all'origine, nella fase iniziale della vita, questo corpo che ti nutre, che ti mette al mondo, ti nutre, ti dà le prime cure, ti dà anche le prime sollecitazioni sessuali... quindi intrigante, un corpo intrigante, potente, minaccioso e desiderato - quindi - è nello sguardo di un figlio. Io probabilmente mi sono pensata anche come figlio maschio. Per una femmina, figlia proveniente da una famiglia contadina, studiare era percorrere una strada che era quella prevista per il maschio semmai. Non è casuale la messa a tema, la centralità che ha preso la questione madre-figlio, anche nei miei studi, nelle mie riflessioni teoriche. Perché io, probabilmente, mi sono pensata come figlio. Inevitabilmente. Essendo, come dire, una figlia femmina, di famiglia contadina, che studia, ha davanti una prospettiva che storicamente è stata quella maschile. Fortuna volle che mia madre volesse una figlia invece, coi capelli rossi, che lei imbellettava. Lei mi pensava come una bambola. In realtà io avevo capelli già ricci, lei di notte mi faceva i boccoli. Non so, mi svegliavo la mattina coi pendolini, quindi ero una bambola. Mi vestiva con grandi sacrifici, mi vestiva molto bene, colorata. Ero già coloratissima ma insomma lei insisteva sul colore, quindi voleva una femmina. Questo, secondo me, mi ha trattenuta dal diventare una donna… nell'assumere un tratto più decisamente da emancipata in chiave maschile - diciamo - questo dualismo è stato la mia dannazione e la mia fortuna. Il dualismo era tra la condizione contadina e la scuola. Io ho sofferto molto nel passaggio. Quando sono entrata in questo liceo, un buonissimo liceo, la cultura mi ha salvato, ovviamente, anche dagli aspetti più dolorosi e più violenti della condizione sociale di questa famiglia povera, ripeto, e dove la violenza c'era come in molte famiglie contadine allora: le donne venivano picchiate nonostante fossero, ripeto, molto forti. La cultura ha segnato uno stacco per me molto violento, una salvezza, perché mi ha aperto una prospettiva di mondo. Certo non era l'emancipazione, poi ho avuto modo di confrontarmi con donne che hanno avuto percorsi diversi dai miei nel femminismo, l'emancipazione è quella di donne che venivano da classi sociali già in parte emancipate, voleva dire viaggiare… io ho avuto paura dei treni fino a vent'anni, non ho vergogna a dirlo. Il primo treno che ho preso con un'assoluta felicità è stato quello della fuga dal mio paese. Ma io ho avuto un'occasione per uscire dal paese a diciotto, diciannove anni. Avevo vinto la borsa di studio alla Scuola Normale di Pisa. E lì però, il primo distacco - probabilmente - dal paese, qualcosa lì è scattato. Tanto che dopo due anni sono ritornata, ho insegnato per altri quattro anni in supplenza del mio professore di filosofia al liceo. Quindi è stato molto duro questo percorso fino ai venticinque anni. E soprattutto non c'era l'emancipazione che molte altre donne hanno conosciuto. Cioè la cultura emancipa, certo, apre spazi nel pensiero, ma non ti emancipa i piedi. I piedi erano legati al mio paese, erano lì in quella terra, in quella famiglia contadina. Io ho vissuto con molto dolore negli anni del passaggio al liceo questa separazione, questa contrapposizione tra corpo e mente, tra condizione contadina e questa cultura alta. Io cominciavo... il tentativo mio era di tradurre questa esperienza di corpi, di fisicità, di natura, di terra, di tradurla nei termini alti della filosofia, della letteratura. E per fortuna avevo dieci chilometri in bicicletta tutte le mattine, venti andata e ritorno, in cui potevo smaltire anche il peso delle notti di questa fatica, di questo dolore, di questa violenza. Ma è stata molto combattuta questa dualità, ed è diventata il tema centrale di tutta la mia ricerca. Così come il tema dell'origine, perché questa violenta separazione tra corpo e pensiero... ecco, [è stato] molto faticoso - ovviamente - per me aprirmi uno spazio. Non c'era spazio fisico, eravamo stipati in due stanze, c'era una grande promiscuità. Per fortuna c'era la campagna, ecco, gli alberi per me - in realtà - non son secchi. Gli alberi sono pieni di foglie, perché mi nascondevano, mi permettevano di isolarmi, erano accoglienti. Come questo mandorlo. Ecco io adoro questo mandorlo, perché abbraccia questa casa. I primi anni, quando ero più agile, stavo sempre sul ramo del mandorlo. E ecco, quindi, vi erano gli alberi. E però - devo dire - poi dovevo studiare e preparare le lezioni, in questa casa, in mezzo a questi corpi. E quindi la prima stanza, io dico sempre, è stata il mio pensiero. Mi sono dovuta aprire uno spazio di solitudine e di riflessione nel pensiero. E questo anche ha segnato, a proposito dell'avere o non avere figli, ha segnato il mio percorso successivo, quest'elemento che io non chiamo di solitudine, chiamo di singolitudine nel senso che c'è l'essere soli ma non nel senso della solitudine. Io ero in compagnia, tutti i mille autori, le cose che leggevo, la scrittura è stata una grande compagnia. Quindi non era la solitudine, è un elemento di singolarità. Cioè io non ho avuto interlocutori in questa famiglia, non erano, non potevano essere interlocutori. Infatti credo di aver costruito poi, nel corso della mia vita, tanti paesi ogni volta. Quando ho insegnato nel ‘68 a Milano, ero già a Milano, ho insegnato per dieci anni in una scuola media a Melegnano, che era una cittadina a trenta chilometri da Milano, anche lì cultura contadina. Poi, dal ‘76 al '86, in un quartiere di Affori con Masina a Milano, di nuovo un altro... e poi qua. Questo però è il mio paese ideale, ecco, quindi devo dire qui è stato veramente l'approdo più importante, ma sempre con grande amore per il paese, per le tradizioni del paese. Evidentemente quest'origine ha lasciato un segno profondo ecco, e dove l'elemento della singolitudine, come lo chiamo io, è stato centrale, centrale per tutto il percorso della mia vita, cioè è lì, e in questo io dico sempre non c'è scelta, c'è un tratto di destino che viene dalla nostra storia d'infanzia e adolescenza e c'è - come dire - c'è poi un fare di necessità virtù, si dice banalmente. Ma è soprattutto stato col femminismo che io ho potuto dare un segno diverso a quello che era il destino anche doloroso, a caricarlo, a dargli - come dire - anche una prospettiva invece di grande novità, radicalità, originalità. Il poter vivere la singolarità, io lo considero un privilegio doloroso, con dei tratti dolorosi, ma un privilegio. Ma questo uscire dalla logica che se non sei in due, se non hai il figlio su cui riprodurti, se non hai la famiglia, ecco... quello che l'Aleramo chiama "il fastidioso obbligo di vivere per sé", io su quello ho davvero lavorato molto, su questo … per riuscire ad avere, a vivere nella singolarità senza necessariamente... L'amore, se c'è, deve essere una cosa in più, che - detto così - uno dice: "ma come, l'amore è la cosa centrale della vita delle persone". Io ho lavorato molto su di me perché l'amore fosse, se c'è, una cosa in più, importante. Però l'essere con se stessi, con se stessi ovviamente per me è anche il punto di partenza indispensabile per creare delle relazioni d'amore, d'amicizia, che siano vere relazioni di reciprocità, non di aggrappamento reciproco."]]>
soggetto amore scelta corpo madre figlio violenza scuola singolitudine solitudine lavoro femminismo famiglia d'origine persone citate Vigliani, Ferdinanda (autrice) [persona citata] Leonardi, Paola (sociologa) [persona citata] Fachinelli, Elio (psichiatra e psicanalista) [persona citata] Aleramo, Sibilla (scrittrice) [persona citata] Ente e ruolo Scuola Normale Superiore


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